E qui è la campagna delle terre alte affacciate sul Mediterraneo a fare da interlocutore all’azione umana. Trasferendo una parte della sua vita e del suo lavoro a Carbuta, infatti, Galvagni può scavare in profondità e cercare le radici della sua matrice formale “nella concretezza della creatività del lavoro contadino: un atteggiamento quasi antropologico che diventa presupposto della sua ricerca sulle interazioni, superando qualunque dualismo pittore-architetto”; è quello che ci racconta Francesca Olivieri, architetta che ha dedicato le sue ricerche recenti allo studio dell’opera di Galvagni.
Tant’è che negli anni che seguiranno, anche una volta passati i grandi entusiasmi della scena di Calice, è alla terra che lui rivolgerà molta della sua attenzione, al rapporto col luogo e con la forma delle sue coltivazioni terrazzate, al rapporto con chi la abita e la plasma, trovandosi spesso al bivio di doverla lasciare per seguire le opportunità delle grandi città: con questa comunità creerà opere teatrali alla fine dei ’70, e quadri che donerà al paese.
D’altronde, stiamo parlando di una persona che, proprio come se avesse voluto dar prova con la sua vita delle teorie che propugnava, “tutto dove andava creava qualcosa, con tutto, con ogni oggetto che trovava e conservava”, come ce lo ha poi raccontato la figlia, Martina Galvagni, come lo suggeriscono gli oblò recuperati dalle navi in disarmo e usati negli interni come finestre, e come ce lo restituiscono gli anni passati a depositare nuove creazioni dentro e fuori la casa di Carbuta, lui come anche la moglie Corina che a lungo terrà lì il suo studio.