Lo sanno tutti, Brian Peter George St. John le Baptiste de la Salle Eno, o più semplicemente Brian Eno, è stato ed è ancora una delle personalità più influenti del panorama musicale internazionale degli ultimi cinquant’anni. La sua carriera artistica e musicale ebbe inizio con i Roxy Music, nei lontani anni ‘70, per proseguire poi come musicista solista, ma non proprio solitario, dato che di lui si ricordano importantissime e decisive collaborazioni: in primis David Bowie, ma anche i Talking Heads, U2, solo per citarne un paio. Ma Brian Eno è anche un’artista visivo riconosciuto (ha esposto e collaborato con Paul Stolper Gallery a Londra e Michela Rizzo in Italia, ma anche in moltissime altre occasioni) nonché l’inventore delle famose carte Oublique Strategies, da cui lui e Bowie trassero ispirazione per le loro composizioni mentre ideavano la mitica trilogia berlinese. E per non farsi mancare nulla, Brian Eno è anche autore di libri. Negli anni ’90 era uscito un suo diario-memoir (se non lo avete letto, andatevelo a cercare se non volete morettianamente farvi del male) e alla fine dello scorso anno è uscito questo piccolo, ma prezioso testo: What art does (an unfinished theory), edito da Faber & Faber Ltd, London UK.

Scritto da Brian Eno e illustrato da Bette A., il libro è semplice da leggere, scorrevole e interessante. Ma soprattutto è denso di stimoli e induce alla riflessione. È fatto di alcuni statements, commentati in maniera approfondita, ma volutamente (è proprio questo, almeno in parte, lo spirito di ciò che l’arte fa, secondo Eno) con un linguaggio comprensibile anche ai non addetti ai lavori.

Ma alla fine, che cosa fa l’arte? Se fare arte è un’attività specificatamente umana, così come il linguaggio o l’attività scientifica, più complesso è infatti stabilirne una riconosciuta “utilità”. Troppo spesso, ahinoi, l’arte è vista come un di più, un lusso di cui si può eventualmente fare a meno. E difatti, non appena ci sono dei problemi, la cultura, e l’arte in particolare, è la prima voce da depennare nella lista dei fondi da erogare. Nessuno di noi è d’accordo con queste scelte, tantomeno Eno, ma la domanda resta aperta: che cosa fa l’arte? E perché ne abbiamo tutti un disperato (anche se non sempre consapevole) bisogno?

E qui parte il bello. Perché le domande potrebbero essere anche molte di più. Perché ci piacciono certe cose e altre non ci vanno giù? Perché c’è quella canzone che non smetti mai di ascoltare (e da quarant’anni, aggiungo io) e quel quadro, o quell’opera, da cui non riesci a staccare gli occhi? Ma, anche, perché preferisci quel taglio di capelli, quel vestito, quel pezzo di design in casa, per sentirti bene?

Tutte queste sembrano cose superflue, un di più che ci possiamo godere quando ci siamo assicurati tutto il resto. Ma è proprio così?

Intanto Eno parte dall’idea che per arte si intenda qualsiasi manifestazione dello spirito umano: dalle arti visive alla letteratura, dalla musica al cinema e così via. Anzi, in fondo facciamo arte tutte le volte che scegliamo cose che non sono essenziali al mero sopravvivere, per il solo piacere della bellezza, o perché ci fanno stare bene. Un ricamo su un vestito, un colore abbinato ad un altro in un abito o nell’arredamento. A patto di non fare scelte di questo tipo in base a pensieri indotti o standardizzati da cliché sociali di qualche tipo, non si tratta di mero gusto, o di moda, o non solo: si tratta di mettere in gioco un modo simbolico di stare al mondo, capace di comunicare cose, dire chi siamo. La chiave è saper rispondere alla semplice, ma fatidica domanda: che cosa mi piace? Di che cosa non posso fare a meno? È curioso, perché la stessa cosa la dice lo psichiatra Raffaele Morelli, in tutt’altro contesto. Ma qui stiamo parlando di arte, e perché è tanto importante.

Insomma, l’arte, per Eno (che qui strizza l’occhio ad Aristotele), riguarda tutto ciò che non è funzionale a un fine ad essa esterno. L’arte c’è solo dove le cose possono anche essere altrimenti, e questo significa che il suo è un regno di libertà e sperimentazione potenzialmente applicabile in qualsiasi ambito dell’esistenza. Per questo l’arte, anche se siamo partiti dalla domanda “che cosa mi piace?”, non va confusa meramente con il gusto: è piuttosto un’esperienza, e un’esperienza di “engagement” profondo. L’arte, dice Eno, è il modo di far accadere i sentimenti (feelings), in modo del tutto gratuito e libero: facendo vibrare la nostra parte emotiva e profonda, funziona come una specie di antenna, non seguendo le regole sperimentate e prevedibili della ragione, ma quelle sorprendenti e inaspettate della fantasia e dell’istinto.

In tutto ciò, è però fondamentale che l’esperienza dell’arte accada nel regno della finzione (e qui di nuovo Eno si scopre aristotelico). Nell’arte siamo libere e liberi di sperimentare qualsiasi cosa, anche la più estrema, senza porci alcun limite, proprio perché siamo nel mondo della fantasia, del fictional. Questo non significa un grado inferiore di realtà, ma quasi il contrario.

I fictional feelings a cui abbiamo accesso attraverso l’arte sono, infatti, preziosissimi: ci aiutano a cogliere le differenze tra le cose, tra le esperienze, tra mondi diversi e modi diversi – di fare arte, ma anche e soprattutto di vivere. Soprattutto, ci permettono un’esperienza singolare: non delle cose come sono “in realtà”, ma di come potrebbero essere. Dal reale, passiamo al possibile e qui si spalanca un mondo. Perché, rendendoci capaci di immaginare mondi possibili, e soprattutto di porre questi mondi possibili all’interno di un dialogo intersoggettivo, l’arte ci mette anche nella condizione di poterli creare, di farli vivere.

Per questo l’arte è la linfa vitale della comunità, poiché costruisce le trame di una cultura condivisa e permette di immaginare il mondo come vorremmo che fosse – e quindi ci fornisce gli strumenti, interiori e psicologici, per crearlo. Insomma, se l’arte da un lato ci insegna ad aver a che fare con il caos, e con un salutare saper perdere il controllo, dall’altro ci porta anche ad osare e a guardare oltre (e qui Eno mi ricorda Goethe). È per questo che l’arte, più di qualsiasi altra esperienza, ci rende davvero umani.

Il libro finisce – sorpresa – con un’unica foto di un’opera d’arte contemporanea, oltre i disegni di Bette A. (e qui permettetemi un piccolo brivido di orgoglio campanilista). L’opera è di un artista torinese, ed è L’Albero porta di Giuseppe Penone, in una foto di Luigi Gariglio. Nell’opera di Penone, dentro un albero ce n’è uno più piccolo, verde, nascente. Proprio come capita dentro di noi, grazie a quello che fa l’arte.