di
Giorgio Terruzzi
L’atteggiamento opposto dei due campioni: Hamilton è tormentato dai dubbi. Alonso invece non ha mai smesso di credere in sé stesso e aspetta nel 2026 l’ultima occasione con l’Aston Martin di Newey
«Non sono gli anni, sono i chilometri». La battuta è di Indiana Jones. Viene buona per comprendere le differenze che separano Alonso da Hamilton, due piloti che di km ne hanno percorsi una infinità. Fernando ha 4 anni più di Lewis. Procede a testa alta, il ghigno del guastafeste esposto in permanenza. Anche se di punti, in questo Mondiale, ne ha messi assieme 26, contro i 109 di Hamilton che tiene gli occhi a terra, preso da uno sconforto clamoroso. È questa la prima chiave di lettura utile.
Alonso ha vinto meno di Lewis, 2 titoli contro 7; è convinto, di meritare ben altro; fa i conti con una fame che le sconfitte hanno moltiplicato.
È ingordo nel suo fare, nelle relazioni sentimentali, nella pratica del ciclismo, nella sua voglia di rivincita. Non si è mai sentito inferiore ad alcuno. Nei messaggi via radio è cinico, ironico, implacabile. Mentre Hamilton chiede rassicurazioni tra un dubbio e un lamento. Insieme, stesso team, un anno soltanto, 2007, McLaren. Errori e dispetti, di Fernando soprattutto, certo di avere al fianco un talento acerbo ma formidabile. Lui che i compagni di squadra vuole e deve tritare anno dopo anno. Risultato, battuti per un soffio, entrambi, all’ultimo Gp, in Brasile, da Raikkonen con la Ferrari. Nella stagione della spy story, disastrosa per la squadra inglese. Quello il bivio: Lewis rimase in McLaren per vincere il suo primo titolo nel 2008; Fernando tornò in Renault che gli aveva permesso di conquistare 2 Mondiali battendo Schumi (2005, 2006).
In comune ci sono origini umili; rapporti strettissimi con i padri. Più severo e tosto quello di Alonso, Josè Luis; più accondiscendente quello di Lewis, Anthony; c’è la Ferrari che lo spagnolo rincorse a lungo prima di un fidanzamento durato 5 anni nell’epoca del dominio Red Bull, con Vettel vincitore di 4 campionati filati mentre Alonso, cacciando in pista miracoli, collezionava frustrazioni. Il desiderio di rifarsi: moltiplicato. Anche lungo un secondo capitolo McLaren (2015-2018) quando ogni qualità tecnica era ormai svanita. Mentre l’altro infilava un’altra perla tattica: passaggio in Mercedes (2013) per avviare un ciclo strepitoso, premiato da 6 centri iridati.
Abbastanza per saldare i conti con il destino di un bimbo discriminato, bullizzato, ferito dalla separazione dei genitori. Alonso, maschio alfa, cresciuto in una famiglia patriarcale, ha a che fare ancora con conti spalancati. Un capobranco in credito, nonostante la reputazione e l’altissima considerazione del proprio valore. Cosa che l’ha spinto talvolta ad affrettare un divorzio, ad assecondare una insofferenza.
Fernando è ateo, Lewis religiosissimo. Fernando vive per lo sport. Un agonista indefesso. Del suo mondo conosce tutto e tutti, individua pregi, vizi, difetti, giovani da lanciare. Un uomo vorace, un seduttore seriale, svelto, dedicato. Lewis ha interessi nella moda, nella musica, nel cinema, sembra più votato ad una misteriosa introspezione, cullata da un riscatto completato.
Fernando guida l’Aston Martin e aspetta un ultimo regalo: la macchina che Newey sta progettando per il 2026. Hamilton voleva la Ferrari come ultimo tocco magico e ora sembra afflitto da un sogno tardivo già infranto. Entrambi cercano un altro titolo. L’ottavo per Lewis; il terzo per Alonso, da ottenere ad anni 45 come ovvia ricompensa, da rincorrere con una energia che Hamilton sembra aver smarrito. Due storie diverse con lo spettro di una doppia amarezza in vista del capitolo finale. Ma a dispetto del bottino pregresso, è opposto il piglio. Fernando, col suo orgoglio asturiano, pare l’ultimo dei Mohicani. Si batte, si sbatte, non fa prigionieri. Una teppa, la grinta del bimbo che è stato. A perdere non imparerà mai
8 agosto 2025
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