di
Roberta Scorranese

La cantante: «Dopo i Matia Bazar mi fermai per sette anni. Se canterei per Putin? Ma per favore»

Antonella Ruggiero, lei è sulla scena musicale da decenni.
«Ma ci sono stati dei momenti in cui mi sono allontanata dal mondo della musica. Non dalla musica stessa, ovviamente, ma dal suo universo».

Dopo l’addio ai Matia Bazar?
«Sì, decisi di fermarmi. Di colpo. Sette anni facendo altro».



















































Era il 1989. Cadeva il Muro di Berlino e Antonella Ruggiero lasciava i Matia Bazar. Un colpo al cuore per milioni di fan.
«Però ho fatto quello che avevo in mente: ho viaggiato a lungo, India, Asia, Nordafrica».

Che cosa cercava?
«Idee, suggestioni. Studiavo le voci delle donne indiane. Ma lo sa che cantano in una specie di falsetto? Non vorrei definirlo una forma di “sottomissione”, ma di certo o ci vedo un passo indietro rispetto alle voci maschili».

Il blues, invece.
«Vocione femminili, sembrano un tuono che parte da dentro, una ribellione. Ho studiato anche le voci nordafricane, mi sono lasciata conquistare da cose nuove. Io sono fatta così: ad un certo punto le cose le devo chiudere e mi devo mettere a cercare altro».

Esattamente cinquant’anni fa, era il 1975, nascevano i Matia Bazar.
«Avevo appena ventitré anni, però sapevo cantare. Fosse stato per me quelli della PFM si sarebbero dovuti fare i fatti loro».

Perché furono Franz Di Cioccio e gli altri a presentarle i futuri «compagni di viaggio»?
«Sì, io ero poco convinta anche perché il mio sogno non era quello di fare la cantante».

Che cosa voleva fare?
«L’artista. Disegnare, fare opere grafiche, forse fotografare».

E invece si ritrovò su un furgone a girare il mondo.
«Sì perché non ci fu un vero provino: intonai un brano, mi dissero “va bene” e cominciammo a fare concerti. Una follia a pensarci oggi, però azzeccammo tutto».

A cominciare dal nome.
«Loro erano già un gruppo ma si chiamavano in un altro modo. A me piacque quel Matia, che non è né femminile né maschile».

In quell’anno imbroccaste subito un successo: «Stasera che sera, restare tutto il tempo con te». Voce strepitosa, atmosfere surrealiste.
«L’alchimia funzionava. Non ci fermammo all’Italia ma cominciammo a girare il mondo. Ricordo la prima volta in Giappone: avevo poco più di vent’anni, all’epoca non c’erano di certo i telefonini, dovevo però chiamare casa».

Il primo Sanremo.
«Posso dirle una cosa più originale rispetto a un ricordo vago e insipido?».

Ma ben venga!
«Non farò mai più Sanremo».

Ne ha fatti undici! Perché questa dichiarazione così perentoria?
«Proprio perché ho partecipato a numerose edizioni conosco bene il meccanismo. Ha le sue regole, le sue condizioni legate al business e al marketing, e io spesso non le reggo».

Un ricordo sanremese però glielo chiedo.
«L’anno in cui sul palco salì Renato Dulbecco. Uno scienziato, Premio Nobel per la medicina, che partecipa a una manifestazione di canto per sollecitare i finanziamenti alla ricerca: be’ questo ti fa capire come vanno le cose».

Era il 1999, conducevano Fabio Fazio e Laetitia Casta.
«Allora le confesso un segreto».

Prego.
«Una volta in uno dei Festival di Sanremo da solista, modificai il brano perché mi era andata via la voce, avevo l’influenza e non reggevo certe note».

Nessuno se n’è accorto?
«No, perché la bravura è anche quella. Ma era inevitabile: una delle cose “sanremesi” è che prima ti fanno fare servizi fotografici all’aria aperta, in riva al mare, in pieno febbraio».

Com’è finita?
«Sono arrivata seconda».

È vero che Freddie Mercury era un fan della vostra «Ti sento»?
«Sì, lo conobbi a Tokyo. Trascorremmo una serata bellissima, lui cantava le nostre canzoni ma quello che maggiormente mi ricordo — mi scusi — è il sushi squisito che mangiammo».

Sting la chiamò ad aprire un suo concerto.
«Oddio, anche qui ho un ricordo culinario. Trascorremmo dieci giorni in giro per l’Italia, al suo seguito c’era un esercito di persone e avevamo, pensate, le cucine da campo».

Lei è nata a Genova.
«Nel quartiere di Pegli».

Ha conosciuto De André?
«Condividevamo il palazzo con le sale di registrazione, quartiere Sturla. Un giorno lo vedemmo arrivare, si fiondò nella sala prenotata con un impeto strano, sbattè la porta, era alterato e litigava con il suo staff. È stato l’unico incontro con lui».

Paolo Villaggio lo ha conosciuto?
«No, ma ho conosciuto Don Andrea Gallo, il “prete di strada”. Fumava una sigaretta dopo l’altra, aveva un animo combattente e ha fatto tantissimo per combattere il disagio nei quartieri».

Lei crede in Dio?
«Lo vedo nei disegni della natura, nella bellezza delle cose, negli animali».

Da pittrice «sublimata» nel canto, qual è il suo artista prediletto?
«Le dico il quadro: Ave Maria a Trasbordo di Giovanni Segantini. Io ho una casa non lontana dal punto dove l’artista lo dipinse, qualche volta ci vado perché ne assorbo la poesia. C’è natura, senso del ritorno a casa, ci sono gli animali, vede che ricorrono spesso?».

Ne ha tanti?
«Ho cani e gatti, in particolare dei gatti riccioluti che sembrano tanti mocio che si muovono per casa».

Perché ha lasciato i Matia Bazar?
«Perché volevo fare altro, perché la routine dei concerti, delle prove, delle trasferte mi avevano stancato, forse anche inaridito. Volevo un rinnovamento che fosse prima di tutto personale».

È stato un addio facile?
«No, è stato un addio difficile. Non drammatico, per carità, ma nonostante io avessi mandato per tempo i preavvisi e avessi comunicato la decisione con largo anticipo, gli altri compagni di band hanno fatto fatica a capire».

Perché secondo lei?
«Perché si fa fatica a capire la complessità».

Del tipo: «abbiamo successo, vendiamo tanti dischi, giriamo il mondo, che cosa vuoi di più?»
«È così. Non vorrei essere superficiale o banale, ma non sempre gli uomini colgono queste sfumature interiori».

Non ha più sentito il resto della band, negli anni successivi?
«Ci siamo rivisti ai funerali di due di loro, purtroppo».

È stata felice, dopo?
«Ho approfondito la musica sacra, ho studiato nuovi strumenti e quando una band techno di Berlino ha completamente stravolto “Ti sento”, trasformandola quasi in un’altra canzone, mi sono persino divertita»

Perché ha scelto di vivere a Berlino?
«C’è tanto verde. Nelle città italiane non è così».

Un marito (il produttore Roberto Colombo, ndr) e un figlio, Gabriele.
«Non parlo di mio figlio perché se lo faccio non la prende bene».

Nel 1984, anno simbolo della modernità secondo George Orwell, voi andaste in Urss, protagonisti di una tournée trionfale.
«Ah, qui ho un aneddoto. Migliaia di persone, io in scena e un ragazzo che, eludendo un vero e proprio muro di sbarramento militare, prova a salire i gradini che portano al palco. In mano ha un fiore. Accidentalmente fa cadere il mio microfono. Ho visto le guardie precipitarsi ad afferrarlo e a rimetterlo al suo posto, in maniera violenta. Per quei ragazzi la musica occidentale era ossigeno, conoscenza, scoperta. Vita».

Canterebbe mai per Putin?
«Ma per favore».

Sudamerica.
«In Cile c’era il coprifuoco, una cosa seria».

Se le dico Enzo Jannacci che cosa le viene in mente?
«Un uomo semplice. Come medico cardiologo seguiva tante persone della musica, io e Roberto Colombo lo conoscevamo e allora una volta a casa nostra Roberto gli chiese di incidere qualche strofa di Elettrochoc. Lui sapete che cosa fece? Prese un normalissimo registratore e se la cavò in poco tempo, senza pretese».

Quanti papi ha conosciuto?
«Un paio. Ricordo Giovanni Paolo II in Canada, durante un concerto dedicato ai giovani. Ma vorrei tanto incontrare Leone XIV: questo è uno che si è sporcato davvero le mani, ha lavorato con i poveri, è stato in situazioni difficili».

Sul suo profilo Facebook c’è una foto che la ritrae assieme a Alberto Angela.
«Una notte indimenticabile».

Racconti.
«Lui ha chiamato me e altri interpreti a partecipare a una puntata di Stanotte a Roma, io ho interpretato Vacanze romane. C’erano anche Baglioni, Giannini, Abbagnato. Una meraviglia».

Il 10 agosto lei chiuderà la XIV edizione del Premio Letterario Caccuri.
«Con il Concerto versatile, un concerto che tocca tutti i miei successi, andando così a interpretare in chiave tutta nuova brani che hanno fatto la storia della musica leggera italiana. Con me al pianoforte ci sarà il maestro Roberto Olzer».

Antonella, che cosa la spaventa oggi?
«Il potere in mano ai pazzi. E la prego di scriverlo chiaro: pazzi, pazzi pazzi».

8 agosto 2025