La storia di Asja Cogliandro dimostra che in Italia la maternità non è (ancora) un valore, semmai può essere causa di licenziamento. Non è trascorso molto tempo dalla battaglia che ha dovuto condurre la pallavolista di A1 che in un’intervista a La Stampa ha denunciato di essere stata “buttata fuori” dal Perugia perché incinta. Alla fine l’ha spuntata: la squadra rispetterà il contratto. E, grazie alla sua battaglia, la Lega Volley prepara nuove norme – come succede nel basket femminile – che garantiscano la continuità del contratto (e dei pagamenti) e la possibilità di lavorare anche fuori dal campo con mansioni diverse, fino a due mesi prima del parto.
il commento
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Se nello sport, tra regole e protocolli, si tratta di riempire dei vuoti normativi, nelle aziende cosa succede? E cosa è cambiato negli ultimi 10 anni? «Niente», è la risposta che arriva da chi sulla maternità ha ri-costruito la sua nuova vita professionale. Da chi per due volte, a causa della maternità, ha perso il posto di lavoro. Riccarda Zezza ieri, Asja Cogliando oggi: due donne che hanno deciso di reagire. «Queste non sono le storie di donne vittime, ma di donne che sono segnali di un sistema che non funziona per nessuno», premette Zezza.
Dopo una carriera da manager in multinazionali, interrotta dalla gravidanza, ha inventato il metodo “Maam – Maternity as a master” (raccontato anche in un libro bestseller) che in pochi anni l’ha portata a girare il mondo per spiegare a imprenditori e imprenditrici, lavoratori e lavoratrici, che dopo la nascita di un figlio le capacità e le competenze dei genitori possono aumentare e diventare un “master” per il lavoro.
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Riccarda Zezza nasce imprenditrice quando anche lei – come hanno provato a fare con Asja Cogliandro – viene sbattuta fuori. Ma partiamo dalle gravidanze. Con la prima figlia, 17 anni fa. «Con Marta è successo in modo quasi banale: avevo un nuovo manager, un ex collega che ha approfittato della vulnerabilità generata dalla mia assenza durante il congedo per darmi una cattiva valutazione e, al mio rientro, farmi sapere che il mio ruolo sarebbe rimasto in capo alla sostituta, che avevo selezionato io – racconta -. Era un’azienda multinazionale dall’etica impeccabile, ma il primo passo lo fanno le persone, in questo caso il manager, e poi, intorno, la reazione è raramente “coraggiosa”. Anche i capi dei capi, se sanno, preferiscono il basso profilo».
Secondo figlio: cambia l’azienda, ma non il copione. «Dopo aver avuto Luca è stato perfino peggio: di nuovo è stata una scelta del manager, una reazione a una specie di “tradimento”: ero riconosciuta come una risorsa ad alto potenziale e lo lasciavo per avere un secondo figlio? Avevo un pancione di sette mesi quando mi tirò contro una penna urlando: “Perché non ti dimetti?”».
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Zezza decise di restare. «Poco prima del rientro, l’ufficio del personale mi ha chiamata per chiedermi: “cosa vuoi fare quando torni?”. E io ho risposto: “Perché, che fine ha fatto la mia posizione?”. La risposta è stata “Non è mai esistita”».
La manager ricomincia daccapo. Dopo Maam, alla sua seconda maternità fonda la start up Lifeed, (Life Feeds Education). Nasce «il primo e unico programma di formazione che trasforma le transizioni di vita (maternità, genitorialità, accudimento di persone anziane) in palestra di nuove competenze. Così la vita diventa un master dal quale imparare a far meglio al lavoro. In 10 anni con Maam e Lifeed abbiamo lavorato con 70.000 madri, padri, caregiver in 100 aziende. Abbiamo raccolto dati che dimostrano inconfutabilmente che si tratta di esperienze che generano competenze preziose, di cui il mondo del lavoro ha un disperato bisogno. Purtroppo, però, succede che il 60% delle competenze soft delle persone venga utilizzato al di fuori dei ruoli lavorativi. Sto parlando di capacità come empatia, gestione delle crisi, problem solving, ascolto, leadership e molte altre competenze che solo la vita, con le sue mille sfide e la grande passione che accende in noi, può formare veramente».
Molte le aziende private che hanno adottato il modello inventato da Riccarda Zezza. Due su tutte. «Poste Italiane è stata la prima a crederci e da 10 anni raccoglie e racconta storie delle mamme dipendenti e della loro leadership e Gruppo BCC Iccrea ha realizzato un progetto avveniristico per mettere a valore la leadership femminile che emerge da tutti i ruoli di cura – tutti».
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Basta? «No che non basta. Mi domando se sia giusto chiedere alle organizzazioni private di risolvere un problema ben più grande di loro: un problema culturale che si traduce in dramma sociale e danno economico, che mette l’Italia all’87esima posizione su 146 Paesi nel Gender Gap Index del World Economic Forum, e addirittura alla 111 posizione per quanto riguarda la parità di partecipazione economica tra uomini e donne».
Ed ecco perché secondo Riccarda Zezza in 10 anni nelle aziende non è cambiato granché. «Niente», ha detto. Aggiunge: «a livello di leggi, e vorrei poterne sorridere, che io sappia ne è passata solo una, nel 2019, che ha peggiorato la situazione per le donne, consentendo loro di lavorare fino al giorno del parto, quando l’Oms ha dato chiare indicazioni che è necessario per la salute della donna smettere di lavorare almeno due settimane prima. Serviva più flessibilità e condivisione sui congedi, è aumentata solo la pressione sulla donna a lavorare fino all’ultimo secondo». E conclude: «Non sarò io a dire alla politica che cosa fare: la politica è un mestiere che non so fare. Posso però dire che i figli sono un caso di “bene comune”: tutti ne beneficiamo, ma i costi rischiano di cadere solo su alcuni. E non è giusto, oltre a essere profondamente miope e insensato».