La morte di Laura Santi, la giornalista cinquantenne di Perugia malata di sclerosi multipla che si è tolta la vita col suicidio assistito nella sua casa dopo una vicenda amministrativa e giudiziaria durata quasi tre anni dalla prima istanza, ci dà dolore e pensiero.

Dolore perché Laura è una vittima di quella deriva di “aiuto alla morte” che va sostituendo la cura e l’aiuto alla vita. Noi non giudichiamo la persona, solo Iddio sa cosa passa nel cuore di chi dispera. Ma il pensiero si fa trepido e allarmato di fronte alla suggestione che questo suicidio programmato, cercato di proposito e raggiunto “lottando”, sia vantato come un esito vittorioso di bene. Anche perché un’enfasi mediatica ha coronato post mortem questo congedo come un gesto di libertà, di impegno “politico”, una specie insomma di vessillo virtuoso. Ma senza nulla togliere all’empatia umana per il dolore vissuto, ci sembra che l’epilogo sia piuttosto una sconfitta che una vittoria.

Quanto abbia influito sul gesto di  Laura  quella specie di volontariato  che si dà da fare in mezzo ai malati predicando il diritto  di scegliere la morte quando e come si vuole, nessuno può dire; di certo oggi quella morte viene da costoro celebrata come azione civile e  messaggio politico, sulla scia di quella “sentenza Cappato” ( la 242 del 2019 della Corte costituzionale) dalla quale vorrebbero sancito il diritto al suicidio somministrato dal servizio sanitario nazionale. Una specie di morte terapeutica.

Sappiamo che la Corte non ha detto così. Ha detto in primis che dal diritto alla vita “discende il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo, non quello – diametralmente opposto – di riconoscere all’individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire”. Ha detto che l’aiuto al suicidio resta un delitto, e che solo in un caso l’aiutante va esente da pena: quando il malato è affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze intollerabili, tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli. Quattro condizioni da verificare in ambito sanitario pubblico, con perdurante dovere di cura, con ulteriore intervento di tutela di altro organo collegiale terzo per proteggere le persone vulnerabili da abusi, e con necessità di controllo delle modalità esecutive. Tutte cose che spetta al Parlamento regolare con legge.

La legge non è stata fatta e i problemi hanno preso la via giudiziaria. Anche Laura si era rivolta al tribunale, chiedendo che la ASL completasse le verifiche necessarie ancora omesse (1), con condanna a fornire l’assistenza medica, il farmaco letale e la strumentazione (2). Accolta la prima domanda, respinta la seconda. “La declaratoria di illegittimità costituzionale – dice la 242 – si limita a escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, senza creare alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici”.

All’arte medica spetta la cura, non l‘abbandono, men che meno la morte procurata. C’è una frase, nella lettera d’addio di Laura, che zittisce chi parla di vita “indegna”. Dice così: “Intendetemi: io penso che qualsiasi vita resti degna di essere vissuta anche nelle condizioni più estreme”. Vi fa seguito,  è vero, dolorosamente, la scelta confidata. E ci pare si ponga a quel confine che come un velo sottile separa l’invocazione  di cura per la vita dalla resa e l’abbandono e il vuoto di speranza che ammicca alla morte.

Ci sembra di poter leggere con altri occhi, pur nel povero orizzonte delle cose giuridiche a fronte dell’immenso mistero del cuore umano, le parole dell’ultima sentenza della Corte costituzionale, resa nel maggio scorso con il numero 66.  È per la massima parte dedicata al diritto alla cura; ne descrive il fondamento, ne denuncia la carente risposta, ne rammenta l’irrinunciabile dovere. E par che dica infine, nella sostanza, che quella breccia aperta al suicidio in casi d’eccezione nel 2019 cerca rimedio e sigillo primario nella condivisione, nella solidarietà, nell’accompagnamento. In ultima analisi nell’amore.

Non vi si confanno le “derive sociali o culturali che inducano le persone malate a scelte suicide, – dice la sentenza –  quando invece ben potrebbero trovare ragioni per continuare a vivere, ove fossero adeguatamente sostenute dalle rispettive reti familiari e sociali, oltre che dalle istituzioni pubbliche nel loro complesso”.

Forse è possibile rinvenire, nel messaggio lasciato da Laura, in luogo di una estrema testimonianza a favore della morte voluta, una invocazione alla cura non raggiunta dalle nostre attuali strutture d’aiuto, e più insidiosamente dalla mentalità che rinnega l’appartenenza solidale. È dolore, è pensiero che non s’acquieta. È doveroso impegno di aiuto alla vita. 

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