«Ha 41 anni, credenziali accademiche impeccabili, e gode della massima fiducia di Donald Trump. È l’economista che difende la validità dei dazi doganali, con una teoria “eretica”. Si chiama Stephen Miran e ne sentiremo parlare nei prossimi quattro anni».
Così iniziava a gennaio un mio ritratto di Miran, uno dei più ascoltati fra i consiglieri del presidente. Da allora non ha deluso le promesse di una carriera folgorante. Prima Trump lo ha nominato alla guida del Council of Economic Advisers, l’organismo che fornisce alla Casa Bianca analisi e strategie di politica economica. Da ieri, Trump lo ha spostato in un ruolo perfino più strategico: nominandolo in un seggio vacante fra i governatori della Federal Reserve. Per adesso si tratta di un ruolo ad interim, destinato a durare solo pochi mesi. A Washington però qualcuno pensa che sia una tappa verso la successione al presidente della banca centrale Jerome Powell, quando sarà il momento. Non mi azzardo sulle previsioni. Di sicuro Miran va tenuto d’occhio, però: sui dazi aveva previsto tutto ciò che sta accadendo. Tenerlo d’occhio mi sembra un buon investimento.
È importante chiedersi cosa può significare un’influenza del «Miran-pensiero» nella banca centrale più potente del mondo: in particolare, quali conseguenze di lungo termine potrebbero verificarsi sulla politica monetaria e il ruolo globale del dollaro. Il nome di Miran infatti è stato associato allo scenario di un «accordo di Mar-a-Lago», cioè una manovra di svalutazione del dollaro analoga a quelle che il presidente Ronald Reagan volle a metà degli anni Ottanta (accordi del Plaza e del Louvre), con conseguenze dirompenti sulla competitività dei maggiori partner (allora il Giappone e la Germania).
Miran non è un outsider della professione, il suo curriculum è dei più tradizionali. Ha conseguito un Ph.D. (dottorato) all’università di Harvard, ha lavorato nei mercati finanziari, è stato un ricercatore presso il think tank Manhattan Institute. Com’è noto, Trump non ascolta sempre i consiglieri. Però in Miran ha trovato un consigliere davvero «organico», che teorizza la virtù dei dazi.
In uno scritto dell’anno scorso che oggi appare «profetico», Miran sostiene che l’economia americana trarrebbe vantaggio da un aumento generale delle tasse doganali che le alzi a un livello medio compreso fra il 20% e il 50%. La teoria di Miran è poco ortodossa però ha dei precedenti anche nel pensiero economico tradizionale. Il punto di partenza è questo: il liberismo presuppone l’esistenza di mercati perfetti, veramente concorrenziali, che non esistono nella realtà. Nel commercio fra nazioni, non ha senso applicare le categorie teoriche del liberismo quando la più grande potenza industriale del pianeta, la Cina, è retta da un sistema dirigista e statalista. Questo significa, tra l’altro, che i suoi prodotti possono essere venduti in dumping, sottocosto, grazie a robusti sussidi e aiuti di Stato, se il governo comunista di Pechino persegue una strategia di conquista dei mercati esteri, dominio di interi settori, e distruzione della concorrenza. Tutta la teoria accademica è inapplicabile a una situazione di questo tipo.
Sul versante opposto, cioè quello delle importazioni americane, Miran suggerisce di considerare gli Stati Uniti come una specie di «monopsonio»: orribile termine tecnico, è l’equivalente di un monopolio ma dal lato della domanda. Si ha un monopsonio quando un acquirente unico ha un tale potere contrattuale, da poter imporre il prezzo delle merci che compra. L’America si trova in una situazione abbastanza simile, perché importa tantissimo ed esporta molto meno. Quindi una guerra dei dazi è per definizione asimmetrica: per quanto i paesi-bersaglio (Cina in testa) vogliano rispondere colpo su colpo, con ritorsioni e rappresaglie, l’America è in grado di infliggere danni molto superiori a quelli che subisce. Di conseguenza, i dazi americani verrebbero assorbiti dalle imprese cinesi, disposte a calare i loro prezzi pur di non soffrire perdite nelle quote di mercato Usa. Conclusione: il consumatore americano non verrebbe impoverito dall’inflazione, e l’America come nazione ci guadagnerebbe, incassando il gettito dei dazi che sono l’equivalente di una tassa contro la Cina. Con grande beneficio per la finanza pubblica di Washington. Il gettito dei dazi potrebbe servire a finanziare sgravi fiscali a vantaggio degli americani, famiglie e imprese.
Sul fronte monetario Miran guarda al precedente di Reagan, che dovette misurarsi col problema di un dollaro sopravvalutato. Quarant’anni fa quel presidente repubblicano orchestrò tra le potenze economiche di allora (la Cina era ancora molto povera e marginale) due accordi monetari, siglati il primo all’hotel Plaza di New York nel 1985, il secondo nel 1987 a Parigi nell’ala del museo Louvre che allora era la sede del ministero delle Finanze. I due accordi del Plaza e del Louvre, così battezzati, ebbero l’effetto desiderato. La cooperazione fra le banche centrali ridusse la sopravvalutazione del dollaro e l’America ne ricavò un miglioramento della sua competitività.
Miran in passato ha mostrato di pensare che sia possibile «rifare» un’operazione del tipo Plaza-Louvre, per rimediare alla forza eccessiva del dollaro. C’è una difficoltà. Allora quegli accordi vennero raggiunti fra paesi che erano rivali soltanto sul terreno economico (soprattutto Giappone e Germania erano due concorrenti temibili) ma erano alleati politicamente, e militarmente bisognosi della protezione americana durante la guerra fredda. Quindi i firmatari degli accordi Plaza-Louvre erano ben più malleabili rispetto alla Cina di Xi Jinping, una superpotenza rivale non solo nell’ambito commerciale ma anche nella sfera geopolitica e strategica.
Miran ha una risposta a questa obiezione, ecco cos’ha scritto: «Dopo una serie di dazi punitivi i partner europei e anche la Cina saranno più disponibili a raggiungere un accordo sulle monete, in cambio di una successiva riduzione degli stessi dazi». Un’altra misura che ha preso in considerazione il consigliere di Trump, è mettere una tassa sugli acquisti di Buoni del Tesoro Usa da parte degli stranieri. E tanto peggio, o tanto meglio, se questo dissuade gli stranieri dal finanziare il debito pubblico Usa: in quel ruolo può subentrare la Federal Reserve con la sua capacità illimitata di stampare moneta. Un’altra minaccia potenziale nella mani di Washington, è una dichiarazione formale del Congresso e della Casa Bianca che denunci una «svalutazione competitiva» del renminbi, cioè una concorrenza sleale attraverso la moneta: un gesto che preluderebbe a ulteriori sanzioni economiche contro Pechino.
Ora che Miran ha messo un piede dentro la banca centrale, vi suggerisco di leggere questo suo intervento pubblico dell’aprile scorso, tuttora in bella vista sul sito della Casa Bianca. È un po’ lungo ma è un investimento sicuro come lettura per le vostre vacanze. Serve a capire che dietro la strategia dei dazi c’è un pensiero forte, giusto o sbagliato che sia. Ridurre il trumpismo a una caricatura grottesca finora è servito a poco, anzi ha contribuito ad uno shock da impreparazione in molti paesi partner. Fra l’altro in questo testo di aprile c’era già uno scenario sui dazi molto simile al punto di approdo raggiunto in questi giorni con gli accordi Usa-UE, Usa-Giappone e altri. Eccovi Miran:
«Oggi vorrei parlare della fornitura, da parte degli Stati Uniti, di ciò che gli economisti chiamano “beni pubblici globali” per l’intero pianeta. Primo: gli Stati Uniti offrono un ombrello di sicurezza che ha creato l’era di pace più lunga che l’umanità abbia mai conosciuto. Secondo: gli Stati Uniti forniscono il dollaro e i titoli del Tesoro, attività di riserva che rendono possibile il sistema commerciale e finanziario globale che ha sostenuto l’epoca di prosperità più grande che l’umanità abbia mai conosciuto. Entrambi questi servizi sono costosi da fornire. Sul fronte della difesa, i nostri uomini e le nostre donne in uniforme affrontano rischi eroici per rendere più sicuri la nostra nazione e il mondo, preservando le nostre libertà generazione dopo generazione. E noi tassiamo pesantemente gli americani che lavorano sodo per finanziare la sicurezza globale. Sul fronte finanziario, la funzione di riserva del dollaro ha provocato distorsioni valutarie persistenti e ha contribuito, insieme alle barriere commerciali sleali di altri Paesi, a deficit commerciali insostenibili. Questi deficit hanno decimato il nostro settore manifatturiero e molte famiglie della classe operaia e le loro comunità, per facilitare il commercio tra soggetti non americani.
Per “valuta di riserva” intendo tutte le funzioni internazionali del dollaro, compresi i risparmi privati e il commercio. Ho spesso usato l’esempio di due soggetti privati in due Paesi stranieri distinti che commerciano tra loro: di solito la transazione è denominata in dollari, grazie allo status americano di fornitore della valuta di riserva. Quel commercio comporta risparmi detenuti in titoli denominati in dollari, spesso titoli del Tesoro. In conseguenza di tutto ciò, gli americani hanno pagato la pace e la prosperità non solo per sé stessi, ma anche per i non americani. …
Immaginiamo due paesi stranieri, ad esempio Cina e Brasile, che commerciano tra loro. Nessuno dei due ha una valuta affidabile, liquida e convertibile, il che rende difficile commerciare reciprocamente. Tuttavia, poiché possono operare in dollari statunitensi garantiti da titoli del Tesoro USA, sono in grado di commerciare liberamente e prosperare. Questo commercio è possibile solo grazie alla potenza militare statunitense, che assicura la stabilità finanziaria e la credibilità del nostro debito. Ma il nostro predominio finanziario ha un costo. È vero che la domanda di dollari ha mantenuto bassi i nostri tassi di interesse, ma ha anche distorto i mercati valutari. Questo ha gravato indebitamente sulle nostre imprese e sui nostri lavoratori, rendendo i loro prodotti e il loro lavoro poco competitivi sul mercato globale e riducendo la forza lavoro manifatturiera di oltre un terzo dal picco storico e la nostra quota della produzione manifatturiera mondiale del 40%.
Dobbiamo essere in grado di produrre nel nostro paese, come abbiamo visto durante il Covid, quando molte delle nostre catene di approvvigionamento non potevano sopravvivere senza dipendere dal nostro principale avversario, la Cina. Non dovremmo affidarci al nostro principale avversario per beni essenziali alla sicurezza della nostra popolazione. Né dovremmo permettere che il nostro principale avversario tragga così tanto vantaggio da un’architettura di sicurezza e finanziaria internazionale che noi finanziamo.
Vi sono altri effetti collaterali spiacevoli della fornitura di attività di riserva. Alcuni acquistano i nostri asset per manipolare la propria valuta e mantenere bassi i prezzi delle loro esportazioni. Così facendo, finiscono per iniettare così tanto denaro nell’economia statunitense da alimentare vulnerabilità e crisi economiche. Per esempio, negli anni precedenti al crollo del 2008, la Cina, insieme a molte istituzioni finanziarie straniere, aumentò le proprie partecipazioni di debito ipotecario statunitense, contribuendo a gonfiare la bolla immobiliare e a immettere centinaia di miliardi di dollari nel settore, senza preoccuparsi della sostenibilità degli investimenti. La Cina ebbe un ruolo significativo nella creazione della crisi finanziaria globale.
Per continuare a fornire questi due beni pubblici globali occorre una migliore ripartizione degli oneri a livello internazionale. Se altri paesi vogliono beneficiare dell’ombrello geopolitico e finanziario USA, devono fare la loro parte e pagare una quota equa. I costi non possono ricadere esclusivamente sugli americani comuni, che hanno già dato tanto.
Il miglior risultato sarebbe uno scenario in cui l’America continui a garantire pace e prosperità globali e a mantenere il ruolo di fornitore di valuta di riserva, con gli altri paesi che non solo partecipano ai benefici, ma anche ai costi. Migliorando la condivisione degli oneri, possiamo rafforzare la resilienza e preservare i sistemi di sicurezza e commerciali globali per molti decenni a venire.
Inoltre, è fondamentale non solo per equità, ma per capacità. Siamo sotto attacco da parte di avversari ostili che cercano di erodere la nostra base industriale manifatturiera e della difesa e di destabilizzare il nostro sistema finanziario; se la nostra capacità manifatturiera viene svuotata, non potremo fornire né difesa né attività di riserva. Il Presidente ha chiarito che gli Stati Uniti sono impegnati a restare il fornitore di valuta di riserva, ma che il sistema deve essere reso più equo. Dobbiamo ricostruire le nostre industrie per proiettare la forza necessaria a proteggere questo status, e dobbiamo essere in grado di pagare i costi per farlo.
Quali forme può assumere questa condivisione degli oneri? Ecco alcune idee:
Primo, altri Paesi possono accettare dazi sulle loro esportazioni verso gli Stati Uniti senza ritorsioni, fornendo entrate al Tesoro per finanziare la fornitura di beni pubblici. Le ritorsioni peggiorerebbero, anziché migliorare, la distribuzione degli oneri e renderebbero ancora più difficile finanziare beni pubblici globali.
Secondo, possono cessare pratiche commerciali sleali e dannose, aprendo i loro mercati e acquistando di più dagli Stati Uniti;
Terzo, possono aumentare le spese per la difesa e gli acquisti dagli USA, comprando più prodotti americani, riducendo la pressione sui nostri militari e creando occupazione interna;
Quarto, possono investire e aprire fabbriche in America, evitando dazi se producono qui;
Quinto, possono semplicemente versare contributi al Tesoro per aiutarci a finanziare beni pubblici globali.
Uno dei motivi per cui il consenso economico sui dazi è errato è che quasi tutti i modelli usati dagli economisti per studiare il commercio internazionale assumono l’assenza di deficit commerciali, o li considerano temporanei e destinati ad autobilanciarsi grazie agli aggiustamenti valutari. Secondo questi modelli, i deficit commerciali indebolirebbero il dollaro, riducendo le importazioni e aumentando le esportazioni, fino a eliminare il deficit. Se ciò avvenisse, i dazi sarebbero superflui e, in questa ottica, introdurli peggiorerebbe solo la situazione.
Questa visione è in contrasto con la realtà. Gli Stati Uniti registrano deficit di conto corrente da cinque decenni, e questi si sono ampliati notevolmente negli ultimi anni, passando da circa il 2% del PIL nel primo mandato Trump a quasi il 4% nel mandato Biden, mentre il dollaro si è apprezzato, non deprezzato.
Il lungo periodo è arrivato, e i modelli sono sbagliati. Una ragione è che non considerano la fornitura della valuta di riserva globale. Lo status di riserva conta e, poiché la domanda di dollari è insaziabile, esso è rimasto troppo forte per permettere l’equilibrio dei flussi internazionali, anche dopo cinquant’anni.
Analisi economiche più recenti contemplano la possibilità di deficit commerciali persistenti, non destinati a riequilibrarsi automaticamente. Questi studi mostrano che, imponendo dazi ai Paesi esportatori, gli Stati Uniti possono migliorare i risultati economici, aumentare le entrate e infliggere enormi perdite alla nazione colpita, anche in caso di piena ritorsione.
In questo senso, l’analisi dell’“incidenza” dei dazi indica che una quota significativa dell’onere viene sopportata dal Paese bersaglio. I Paesi con grandi surplus commerciali sono poco flessibili: non trovano facilmente altri mercati per sostituire quello americano. Invece, non hanno scelta: devono esportare, e l’America è il più grande mercato di consumo del mondo. Al contrario, gli Stati Uniti hanno molte opzioni: possiamo produrre in casa, o acquistare da Paesi che ci trattano equamente. Questa asimmetria di leve fa sì che siano gli altri a sopportare il costo dei dazi.
Nel 2018-2019, la Cina sopportò il costo dei dazi storici di Trump attraverso un indebolimento della propria valuta, che rese i suoi cittadini più poveri e con minore potere d’acquisto a livello globale. Le entrate dei dazi, pagate dalla Cina, furono usate per finanziare i tagli fiscali di Trump a lavoratori e imprese americane. Questa volta, i dazi serviranno a finanziare sia tagli fiscali sia la riduzione del deficit.
Tasse più basse per gli americani, finanziate in parte con risorse fornite dagli stranieri, genereranno crescita economica, dinamismo e opportunità come mai prima, inaugurando la nuova “età dell’oro” di Trump. La riduzione del deficit contribuirà ad abbassare i tassi del Tesoro, e con essi i tassi dei mutui e delle carte di credito, stimolando un boom economico.
È importante sottolineare che i dazi non vengono introdotti solo per incassare entrate. Per esempio, i dazi “reciproci” del Presidente sono concepiti per contrastare barriere tariffarie e non tariffarie e altre forme di concorrenza sleale come la manipolazione valutaria, il dumping e i sussidi. Le entrate sono un effetto collaterale positivo e, se usate anche per ridurre le tasse, possono accelerare il miglioramento della competitività, aumentando le esportazioni statunitensi.
La condivisione degli oneri può consentire agli Stati Uniti di continuare a guidare il mondo libero per molti decenni. È indispensabile non solo per equità, ma per fattibilità. Se non ricostruiamo il nostro settore manifatturiero, sarà difficile garantire la sicurezza necessaria alla nostra incolumità e a sostenere i mercati finanziari. Il mondo può continuare a beneficiare dell’ombrello difensivo e del sistema commerciale americano, ma deve cominciare a pagarne equamente il prezzo».
8 agosto 2025
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