Se si fosse fatta una stima del grado di felicità di una generazione, quella che ha avuto vent’anni negli anni Novanta e in Clerks di Kevin Smith un riferimento assoluto relativo alla propria ambizione, una pizza e una bottiglietta di Seven Up probabilmente sarebbero state la risposta migliore possibile. Il precariato era già parte di una mentalità che non si illudeva con altre aspettative e i compensi bassi e i vestiti andanti erano all’ordine del giorno, Restava così solo una forma di comune desolazione mista all’ubriacatura da fine settimana che aveva una forma ancora vagamente bohémien e un poco pure operaista. Ci si capiva al volo dentro a quella tristezza che era ancora estremamente ingenua e delicata perché giovane e addormentata. Senza aspettative sì, ma con una miriade di possibili vie di fuga, quello era già infatti il tempo libero nella sua forma definitiva: un sottrarsi alle cose, a partire dai lavori, utili solo per un fine mese e qualche mancia.

Un sottrarsi che aveva al suo cuore il senso di un’ironia disfattista, ma spesso letale. Il tutto per sopravvivere alla televisione commerciale, al grunge e a un fine secolo che sembrava disperato, ma quanto meno capace di un’esplosione, qualunque fosse e chiunque potesse colpire. Gli scoppi ci sarebbero stati e anche belli potenti, l’11 settembre americano le cui conseguenze hanno devastato il globo per tutto il nuovo secolo e il G8 a Genova che ha lasciato sul selciato, insieme al corpo indimenticabile di Carlo Giuliani, l’ultimo incanto possibile, l’ultima leggerezza di chi ormai privo di armi di difesa e di un addestramento adatto si trovava costretto alla guerra. O almeno a quello che sembra essere la guerra, prima del palesarsi di quella vera in tutto il Medio Oriente e in Ucraina, in Sudan e in Myanmar.

Aveva ragione il buon vecchio Randal in Clerks: «Questa è la vita: una serie di finali duri, uno appresso all’altro». E se la guerra è insieme un fatto tragico quanto assurdo e folle è proprio nell’assurdità e nel continuo capovolgimento, purché nulla si capovolga, che vive e vegeta (soprattutto) l’ultima generazione nata nel Novecento, adolescenti imberbi nei ricchi anni Ottanta, giovani depressi (ma romantici) negli anni Novanta e classe media negli anni Venti, anni che però non prevedono alcun tipo di classe media. Ma come il calabrone i quaranta-cinquantenni di oggi, spesso senza figli o senza vere relazioni tirano avanti pagando un affitto e dando quello che possono in quel pezzo di mondo intimo che tutto sommato possono – nelle sue varie, molteplici e assurde versioni (l’assurdità torna spesso) – chiamare famiglia.

Una classe media strana, difficile da definirsi come tale perché è un attimo diventare sottoproletari o mantenuti dai beni di genitori che ancora avevano cose il cui nome corrispondeva per davvero all’oggetto: una casa era una casa e non una stanza, una famiglia era una famiglia e non un incrocio del destino e una coppia era una coppia (anche aperta) e non un poliamore, che sa tanto di via di mezzo tra il policlinico e il politecnico, dove un po’ si studia e un po’ ci si cura, ma insomma non si sa mai bene se poi se ne esce fuori o se si resta dentro. Ma la classe media è tale se la società accetta di vederla, di riconoscerla e di occuparsene, perché nessuno si pone l’obiettivo di diventare classe media, ma sarebbe invece necessario che qualcuno ricominciasse a rivelarne le difficoltà e le necessità. A partire dalla pizza verrebbe da dire, ossia da quel cibo tanto popolare e diffuso che negli ultimi anni ha subito una mutazione praticamente pasoliniana, divenendo gourmet. Un fiorire di pizza chef che attraversano la penisola con il loro bagaglio d’impasti contemporanei e margherite il cui costo ormai si attesta sulla doppia cifra fissa.

Va da sé che tutto ciò ha ridotto non solo la presenza nelle città della tipica pizzeria sotto casa, quella popolare, magari non eccezionale, ma la cui accoglienza era sempre assicurata a tutta la famiglia tra buon umore e prezzi modici, ma ha portato – insieme alla riduzione degli spazi sociali e al conseguente aumento dei costi di quelli residui – ad asserragliare in casa le persone che riducendo i propri costi si sono illuse di potersi proteggere da sole, restando tra quelle quattro mura pagate a peso d’oro. E non sembra essere una casualità se oggi la pizza più diffusa è quella surgelata quasi a ribadire un’alterità anche politica alla pizza gourmet (sicuramente buona) ma estremamente costosa al punto da avere trasformato un piatto popolare in un piatto elitario ed esclusivo.

Non sorprende che a cogliere questo spazio di mercato sia stata un’azienda italiana nata nel 1991 dall’intuizione di chi faceva parte proprio di quella generazione e futura classe media che insieme a tanto disincanto e ironia conservava evidentemente ancora qualche buona idea. A partire da una forma di radicale onestà nel nominare le cose, base peraltro per ogni discorso e per ogni degna ironia sulla vita. Già perché basterebbe leggersi tutti i claim stampati sui cartoni delle pizze surgelate per perdere la testa e avere l’impressione di un invito a palazzo e non di una comoda serata con film in streaming e amabile biretta.

Italpizza

Foto: Italpizza

Italpizza spicca così divenendo dopo, aver penetrato inizialmente il mercato francese e americano, leader della pizza surgelata in Italia con un semplice obiettivo, fare la migliore pizza surgelata e non la migliore pizza. Una differenza non da poco, che si è tradotta da subito in una qualità spiccata e in una semplicità che ha la forma di una margherita: la più ambita, ma anche nella iconica (questa volta iconico ha senso, non come spesso accade in molti degli articoli che si leggono oggi) 26X38 ovvero il formato della teglia del forno di casa.

Nata a Castello di Serravalle, un piccolo paese sulle colline bolognesi, Italpizza è la tipica azienda emiliana capace di grande innovazione, senso pratico e capacità di fare rete. Perché se la pizza migliore è facile poterla trovare a Napoli e dintorni, la migliore pizza surgelata è facile poterla produrre in Emilia per una filiera agricola e del freddo che garantisce approvvigionamenti di qualità. Italpizza dunque con un nome che non offre alcuna possibilità di seduzione che non sia quella di una pizza buona ha da subito conquistato non solo la generazione dei quaranta-cinquantenni (e i loro magri portafogli) ma anche quella dei figli, più o meno a rischio hikikomori, gamer rinchiusi in buie e puzzolenti camerette dove passano ore seduti su improbabili poltrone in finta pelle dette anche sedie da gaming. Italpizza ha saputo cogliere una quota di mercato vedendo nella società la necessità non di deprimere una generazione già in forte difficoltà, ma di dare il meglio possibile a chi può permettersi una pizza tra i tre e i quatto euro e senza stupide illusioni marketing che sanno di presa in giro, ma anzi attivando collaborazioni con Marvel e Jurassic World, perché se già tutto è così tremendamente complicato, che almeno una pizza surgelata sia capace di alleggerire la serata salvando la cena.

E salvare il pranzo e la cena è il compito primario e nobilissimo di una pizza surgelata. E per farlo è necessario essere più che bravi perché logistica e produzione, qualità delle materie prime e cottura dell’impasto non sono cose da nulla quando si parla di migliaia di pizze prodotte al giorno. Una complessità non inferiore a quella a cui va incontro una qualunque brigata di un ristorante stellato, con la differenza sostanziale e concreta, quella di sfamare e per davvero, migliaia di persone e non solo qualche decina di generone o di cummenda a seconda della geografia.

Italpizza ha il sapore di un fare impresa che è sempre più raro in Italia, un fare responsabile e inclusivo, due elementi tropo spesso sottovalutati quasi che il mercato vero sia solo quello di chi può spendere e non di chi ha solo bisogno di vivere e magari ritagliarsi un momento di felicità. Dante Hicks e Jeff Anderson sgranocchierebbero con piacere un po’ di pizza buona a buon prezzo tra una rottura e l’altra, tra un’assurdità a l’altra, perché la vita è sì una serie di finali duri a ripetizione, ma pur sempre tra una serata e l’altra passata sul divano, in famiglia come tra amici. Basta che funzioni.