Nel 1999, Il Sesto Senso ha trasformato M. Night Shyamalan da regista emergente a fenomeno globale. Il film non solo ha conquistato pubblico e critica, ma ha dato il via a una vera e propria firma autoriale, quel cosiddetto Shyamalan twist che sarebbe poi diventato sinonimo del suo cinema: un colpo di scena finale, costruito con sapienza e disseminato di indizi nascosti in piena vista, che costringe lo spettatore a rileggere l’intero film sotto una nuova luce.
Il Sesto Senso fu un successo enorme, candidato a sei premi Oscar tra cui Miglior film, Miglior regia e Miglior sceneggiatura originale — un traguardo inusuale per un thriller soprannaturale. Al centro della storia c’è un bambino tormentato (Haley Joel Osment), un uomo segnato dal passato (Bruce Willis) e una battuta entrata nella storia del cinema: «Vedo la gente morta». Ma ciò che lo ha reso immortale è la rivelazione finale: il dottor Malcolm Crowe, lo psicologo che cerca di aiutare il piccolo Cole, è in realtà morto fin dall’inizio. Per decenni si è parlato di quanto abilmente Shyamalan sia riuscito a nascondere questo colpo di scena al pubblico. Eppure, un’analisi più attenta suggerisce il contrario: il regista non lo ha mai nascosto davvero, anzi, l’ha rivelato nei primissimi minuti del film. Solo che nessuno o quasi se n’è accorto.
Il dettaglio chiave è nella scena iniziale, quando Malcolm viene colpito da un ex paziente disturbato. Dopo lo sparo, vediamo il volto scioccato del personaggio, la moglie Anna che si china su di lui… e poi tutto svanisce nel buio. Nessun rumore, nessuna ambulanza, nessuna corsa disperata al pronto soccorso. Solo silenzio. Poi il titolo e un salto temporale. Nel linguaggio del cinema, un evento traumatico come una sparatoria porta sempre con sé un “dopo”: voci concitate, panico, soccorsi. Qui invece il film omette tutto, non per scelta estetica, ma come vero e proprio indizio narrativo. Shyamalan non mente: ci dice subito che Malcolm è morto. Ma lo fa sfruttando le nostre aspettative: siamo abituati a pensare che la verità arrivi alla fine, non all’inizio. Così, la omettiamo insieme a lui.
Il resto del film gioca su questo equilibrio tra ciò che vediamo e ciò che scegliamo di credere. Shyamalan isola spesso Malcolm, nessuno lo guarda mai negli occhi tranne Cole, e la moglie non gli rivolge parola. Ma il nostro cervello trova spiegazioni emotive — distanza, dolore, crisi matrimoniale — per non affrontare quella più semplice: è un fantasma. Un inganno perfetto, perché non nasconde la verità, ma sfrutta il modo in cui interpretiamo le immagini. È una lezione di cinema che ancora oggi, a 26 anni di distanza, lascia il segno. E rivedere Il Sesto Senso con questa consapevolezza rende ogni scena ancora più brillante.
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