Un altro pezzo di storia – con dentro molte storie – ci ha lasciati. Gianni Berengo Gardin era un mondo nel mondo della fotografia. E allora cosa scrivere? Ripercorrere la sua lunga e densa biografia? Elencare i numeri da record dei suoi libri pubblicati, delle mostre internazionali e dei prestigiosi riconoscimenti? Ma per questo basta Wikipedia!

Un po’ più intimo e forse interessante parlare di lui come persona, giacché a decidere come usare la macchina fotografica è sempre un essere umano (almeno per ora). Chi lo ha conosciuto ne ricorda la grazia, la dolcezza, la gentilezza e il sorriso, ma anche la severa capacità di indignarsi e reagire alle ingiustizie, ai soprusi, agli abusi di potere. Dichiaratamente schierato, ha usato la fotografia in chiave umanistica ma anche come arma di denuncia, mantenendo vigile fino alla fine la sua attenzione etica sulla realtà. Dallo sguardo/squarcio sullo stato dei manicomi nel 1969 (con “Morire di classe”, assieme a Carla Cerati), fino a mostrare lo stupro di Venezia da parte delle navi da crociera (con “Venezia e le Grandi Navi”, del 2015), solo per fare due esempi tra loro distanti nel tempo.

Molti lo definiscono “il Cartier-Bresson italiano”, e senza dubbio i due si ammiravano reciprocamente, tanto da indurre il leggendario francese a includere una foto di Gianni nella selezione delle sue preferite in assoluto. Ma in verità, a domanda diretta, Berengo Gardin affermava di sentirsi – umanamente e fotograficamente – più vicino a Willy Ronis, altro gigante.


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Coerente fino all’estremo, quella sua contro la fotografia digitale e il fotoritocco era diventata una battaglia ideologica, che lui definiva – con una certa autoironia – la sua religione. A qualcuno appariva una posizione anacronistica, ma la sua non era una critica verso la tecnologia o la tecnocrazia, bensì una fedeltà al reportage e un rispetto verso il patto non scritto col destinatario delle sue foto: “Questo ho visto e questo ti mostro”. Il fotografo testimone, non neutrale perché impossibile, ma leale e onesto, senza trucchi o manipolazioni. Egli stesso tollerava tranquillamente queste applicazioni nella fotografia di moda, pubblicitaria, commerciale, ma guai a toccare quella di reportage!

Il valore e la lezione della coerenza, del rigore, perfino della tradizione, spesso si comprendono pienamente a distanza, e forse mentre si dibatte di intelligenza artificiale, il buon GBG può un po’ rappresentare, per chi resta, una sorta di Pier Paolo Pasolini della fotografia. Apparirà un accostamento ardito, forse lo è, ma davanti all’avanzare del “nuovo”, inteso come consumismo, massificazione, spersonalizzazione e conformismo, Pasolini parlava della “dirompente forza rivoluzionaria del passato”. Forza rivoluzionaria.

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