di Guido Festinese

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“Che ci faccio io qui? Che ci fa uno come me davanti al Mare del Nord? Forse si sceglie l’Olanda per una sorta di compensazione, per un desiderio di vertigine di pianura. Altrimenti non ci si arriva per caso in cima a un molo”: così si trova scritto a pagina duecentoventiquattro di Romanzo olandese/ Una trilogia, il nuovo sorprendente libro di Marino Magliani (Scritturapura, 2025), un nome che è spesso tornato su queste pagine. Magliani, da quattro decenni residente in Olanda, in una terra che guarda il male gelido fatta di dune sabbiose, di chiuse, di canali infiniti e simmetrici che non fanno capire se lì inizia il mare o lì finisce nel matrimonio forzato con le acque dolce, per le terre di Rembrandt ha un’ossessione che è diventata, spesso, letteratura.
Lì s’è fermato, dopo aver girato per il mondo tra i continenti facendo molti mestieri: marinaio, contadino, operaio, per diventare poi traduttore e scrittore a tempo pieno. Quando non scrive romanzi storici di cruda efficacia con una scrittura avvolgente, ultimo fra questi Il cannocchiale del tenente Dumont (L’Orma Editore, 2021), ambientato nel suo Ponente ligure in età napoleonica, Magliani ripercorre, con acribia descrittiva, un punto interrogativo che resta sempre lì, a chiudere il conto finale: la propria cartografia interiore che si dilata, esonda, incorpora inevitabilmente la cartografia reale dei luoghi, trovando sempre misteriose corrispondenze tra la Liguria della sua infanzia e la linea dell’orizzonte olandese affacciata sul Nord d’Europa.
I suoi libri in questo senso assomigliano alle superfici apparentemente statiche degli stagni sparsi tra le chiuse nordiche: una situazione apparente di immobilità che nasconde invece, appena sotto la patina superficiale, un tumulto emotivo di vita insanabile. Una sorta di pendolarismo dell’anima guidato da due forze complementari, la ferita della separazione dalla propria terra d’origine scabra, umida, assestata su una faticosa verticalità, una vallata chiusa e ostica alle spalle di Imperia, e l’aver scovato una sorta di freddo ma ospitale secondo luogo dell’anima nella cruda orizzontalità olandese. Con il contrappasso continuo della nostalgia attizzata da entrambi i luoghi, all’infinito: uno lo specchio dell’altro. Un cerchio emotivo che non può che perpetuare la propria corsa all’infinito attorno a un centro che non c’è.
Romanzo olandese è uno strano libro, va detto, e proprio per questo affascinante, tanto da richiedere una lettura, per così dire, in una sorta di souplesse, lasciandosi cullare dalle continue divagazioni che dilatano e rimpolpano un’ossatura, una travatura di base che è quella appena descritta, maturata in un quarantennio di riflessioni annotate, lasciate maturare, sviluppate in altri racconti brevi, intercettate e trascritte da nuovi punti d’osservazione. In questo senso lo scrittore e traduttore, per riprendere recenti calzanti parole usate in altro contesto da Massimo Raffaeli “Ha la necessaria monotonia degli scrittori veri, i quali insistono sulla propria materia senza illudersi di poterla mai esaurire”.
E dunque qui si legge un primo tratto di romanzo, La talpa, che è una sorta di metafisico thriller, un viaggio quasi iniziatico faticoso e scomodo nelle immense viscere ipogee di Amsterdam, per ricavarne, poi, una necessitata fuga nelle valli ligure, dopo aver diviso il proprio tempo sotterraneo con figure sfuggenti che nascondono segreti.
Poi arriva un secondo romanzo nel romanzo, Le vetrate di Rembrandt, e qui la geografia fisica delle case abbarbicate alla sabbia e affacciate sul Mare del Nord, distrutte e ricostruite ogni quarant’anni, diventa geografia umana: quello svelarsi senza pudori degli olandesi, in nome di una trasparenza interiore ed esteriore figlia ed erede del calvinismo puro e duro.
Infine Biografia di un paesaggio anfibio, ricognizione nella ragnatela dei canali che è, poi, una ricerca di vita pulsante in tutto quanto appare come anonimo, ripetitivo e immoto.

 

 


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