Andare al cinema a volte è impossibile: quelli bruttini sono frequentati dagli hipster, quello storico sotto casa ha chiuso di sicuro, ai multisala non danno mai i film in lingua originale, nei d’essai non c’è il film che volevamo vedere. Gli orari sono scomodi, e se piove? E quando poi arrivo in sala e mi becco il vicino che smascella i pop corn e io sono misofonica (cioè non io davvero, una io del pensiero)…
A volte è impossibile andare al cinema perché ne abbiamo perso il senso fondativo, quello che, per ora, condanna la settima arte a dimenticarsi di se stessa (o almeno a metà): il cinema è nato per stupire. Ma non già la pellicola in sé, il singolo film. Cioè sì, certo, ma il cinema in quanto luogo viene prima del prodotto. La meraviglia arriva da quello schermo grande, che tutto abbraccia. Dal suono (una volta un’orchestra dal vivo), il buio perfetto, il timore di risultare inappropriati, la paura della censura, e allora zitti e buoni ché altrimenti arrivano i sospiri, i silenziamenti. La fruizione al cinema è perfetta perché i presenti, alla fine, vogliono che lo sia. Ho pagato un biglietto, o no?
Ci si dimentica perché è diventata una cosa comune, recarsi nella sala di proiezione. Il sabato pomeriggio con la famiglia, la sera con gli amici, qualche primo appuntamento, il club di filosofia all’università con cui cercare di fare bella figura. Oppure «davanti al mio occhio interiore si aprivano terre promesse in cui il cinema determinava la vita […] Perché non erano solo i film a essere importanti, ma anche il luogo in cui si vedevano […] Il film non era solo una sequenza di immagini proiettate, il film era il cinema che si generava dall’incontro tra sguardo e schermo e che avveniva tra gli spettatori». Lo si può dire così, seguendo Esther Kinsky in Di luce e di polvere, il suo ultimo libro, uscito in Germania nel 2023 per la prestigiosa Suhrkamp e quest’anno in Italia, per Iperborea, con la traduzione di Silvia Albesano.
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Esther Kinsky nasce nella Germania dell’Est, DDR. Traduce, scrive poesia e romanzi che forse, stringentemente, romanzi non sono. Macchia, Sul fiume, Rombo: i suoi libri partono da e parlano di luoghi. Luoghi pure qualsiasi, mica importanti per forza. Però che danno forma, che si imprimono e dialogano. Che diventano parte di chi guarda. «A ogni passo quel paesaggio e quei dintorni per me del tutto sconosciuti risvegliavano ricordi, o piuttosto immagini, che affioravano da un giacimento profondo, dove si erano depositate cose che avevo visto, e non necessariamente vissuto, in film, libri, vecchi album fotografici. Dove nel ricordo il confine tra immagini viste e vissute sulla propria pelle, come si suol dire?». O ancora: «Mercato, cinema, cimitero erano i tre punti di riferimento delle località che visitavo: mangiare, vedere, morire. Oppure: vedere, mangiare, morire».
Il mondo ha una pastosità (una carne, diceva qualcuno), e a volte ha a che fare con la fisicità dell’immagine impressionata su una pellicola fotografica. Sarebbe troppo facile però – e pure scorretto – liquidarla con il siamo fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni spesso associata all’esperienza cinematografica. E chissà poi perché, dato che si tratta di una citazione da un’opera teatrale di William Shakespeare. Mah! Nemmeno corretto sarebbe, tantomeno, mettersi a fare discorsi da visioni hollywoodiane, o sonni lucidi finiti male: no, non viviamo in Midnight in Paris. Gli idoli e i miti, di solito, non ci raggiungono mentre camminiamo nottetempo per le strade della capitale francese.
Eh ma signora mia, direte, non si può più dire né fantasticare niente! Be’, insomma, non è proprio così. Se si è alla ricerca di un modo in cui parlare di cinema, per esempio, si può seguire Kinsky, che in Di luce e di polvere mette sulla pagina, quasi in forma diaristica, l’opera scellerata che volle realizzare un giorno (della sua vita reale): rilevare un cinema dismesso in una cittadina dell’Ungheria e riportarlo a funzionamento. «Ogni villaggio un film, mi viene da pensare. Ogni finestra un cinema».
Si scoperchia così quella che potrebbe essere una benevolente leggenda del volgo, e cioè che, se il popolo avesse sale di proiezione, il popolo andrebbe al cinema. Perché come ricorda l’autrice, facendo passare molte volte la parola attraverso i commenti o delle persone incontrate durante l’avventura, a che cosa dovrebbe mai servire un cinema, per lo più a pagamento, quando posso vedere le stesse cose, anzi di più o forse persino tutte quelle che voglio, dalla comodità della mia abitazione, percependo quel consumo come di fatto gratuito?
È giusto che in un certo senso la risposta non arrivi, e che al netto di tutto non possa, probabilmente, essere trovata. Ci si sente però un po’ all’angolo: è tutto un fascino da romantici? Perché non andiamo effettivamente di più al cinema? Dovremmo andare di più al cinema. Ci sono troppe sale cinematografiche? Le programmazioni, a chi dovrebbero essere rivolte? Un biglietto del cinema, quanto dovrebbe costare? È l’ennesimo “film che ci stiamo facendo”, oppure c’è un’attinenza di realtà nel mettersi a pensare così, e nel pensare così perdersi come davanti a un muro bianco, in una fuga prospettica infinita?
Non è uno spoiler, perciò ve lo concedo: sì, Esther Kinsky il suo cinema lo apre. E lo fa generosamente, intendo nello scritto, senza tirarsi indietro sui dettagli. Ma non su quelli scandalistici, sugli amori, sulle notti. Lo fa stringendo un patto di educazione sentimentale con il lettore: proponendo cioè uno scambio, si metterà a nudo se lo faremo anche noi. E lei lo fa, eccome se lo fa. Pure con una certa sprezzatura. D’altronde il cinema non è una novità, per Kinsky, ma il compagno di una vita. E già nei suoi scritti precedenti il legame con l’occhio, meccanico e non, spinge forte per entrare in primo piano. «Il cinema è un luogo di aspettative che raramente vengono deluse, nemmeno da un brutto film, perché significa pur sempre: vedere più lontano di prima, esplorare un orizzonte che senza lo schermo non esisterebbe». Intanto impara il trucco. Lo riporta nella letteratura, giocando fluida tra i punti di vista, mischiando fiaba e realtà e insomma, facendo un po’ il diavolo a quattro con il mondo che crea per il lettore. Proprio un’operazione da regista consumata. «Tutto sembrava immobile in attesa di essere filmato». Il sogno in cui siamo immersi, da questo punto di vista, è realmente eterno, pervasivo, individuale nella sua collettività.
«Se filmassi l’albero in questo momento, pensò Laci, poi potrei dire: Era l’autunno dell’anno tal dei tali, quando abitavo nel cinema Csillag. Con il cinema è così, pensò. Il film diventa la realtà. O comunque la verità». Leggo e c’è qualcosa di Bastardi senza gloria, l’incendio di un cinema che fa Aufwiedersehen al passato, e che allo stesso tempo vuole cancellare il cancellatore di un futuro, quello di Shosanna. Una grande storia è fatta di tante piccole storie che devono toccarsi per poi andrebbe ognuna per la propria strada. Ce lo dicono le regole della sceneggiatura, prima di tutto.
«To look is an act of choice, dice John Berger. Vedere come atto di volontà. La scomparsa del cinema come luogo fisico non può essere slegata da un’illusione che si insinua nel vedere come atto di volontà: l’illusione di una scelta più ampia, confinata nel privato, nel piccolo, nel controllabile. Sottratta dalla dimensione pubblica, alienata dalla sovversione». Alla fine, il decorso del nuovo cinema non sarà lungo. Ma forse non esiste qualcosa come “il nuovo cinema”. Esiste il cinema e questo è tutto. Sta a noi reagire alla sua presenza. «Si impappinò e disse infine soltanto: Lunga vita al cinema, perché tutti quanti hanno il diritto di vedere più lontano». O più a fondo.