Prezzo oltre i 3.390 dollari dopo i dazi Usa sulle barre da un chilo. La riduzione delle riserve da parte delle banche centrali

Non solo beni agricoli e prodotti industriali. Adesso i dazi voluti dagli Stati Uniti colpiscono il più classico dei beni rifugio, l’oro. Metallo che è rientrato da alcuni anni al centro delle dinamiche che regolano i rapporti di forza tra le grandi potenze mondiali vista la sua funzione di riserva delle Banche centrali e di possibile alternativa al predominio del dollaro. Per quanto riguarda i nuovi dazi imposti dagli Stati Uniti non si tratta di una decisione generalizzata sul metallo in sé, ma mirata sulle importazioni di lingotti d’oro da un chilo, una mossa che minaccia di dare un nuovo colpo alla Svizzera, il più grande centro di produzione di questo tipo di lingotti al mondo. L’agenzia Customs Border Protection ha affermato che i lingotti d’oro da un chilo e da 100 once dovrebbero essere classificati sotto un codice doganale soggetto a dazi. Ed è questo che si legge in una lettera di decisione datata 31 luglio, visionata dal Financial Times. 

Il mercato dei futures

I lingotti da un chilo sono la forma più comune negoziata sul Comex, il più grande mercato mondiale dei futures sull’oro, e costituiscono la maggior parte delle esportazioni di lingotti dalla Svizzera verso gli Stati Uniti. Le relazioni tra Washington e Berna hanno subito un grave deterioramento dopo che la settimana scorsa gli Stati Uniti hanno annunciato l’introduzione di dazi al 39% sui beni importati dalla Confederazione. E i lingotti d’oro rappresentano una voce importante nelle esportazioni elvetiche verso gli Stati Uniti. Il commercio internazionale di lingotti d’oro prevede alcuni passaggi complessi e tradizionalmente si svolge attraverso una triangolazione in cui i lingotti di grandi dimensioni vanno da Londra a New York passando per la Svizzera dove vengono fusi e riadattati in diversi formati. I due mercati usano standard fisici diversi: a Londra predominano i lingotti da 400 once (un’oncia d’oro corrisponde a 31,103 grammi), equivalenti grosso modo alla grandezza di un mattone, mentre negli Stati Uniti viene utilizzato il formato di lingotti da un chilogrammo, all’incirca della dimensione di uno smartphone. Il lavoro di trasformazione dei formati rappresenta un business importante per la Svizzera visto che negli ultimi 12 mesi il Paese ha esportato oltre 61,5 miliardi di dollari in oro negli Stati Uniti. Un ammontare che a questo punto potrebbe essere soggetto a una tassazione complessiva di 24 miliardi di dollari, in base all’aliquota del 39%. 



















































Le quotazioni

L’oro in questi tempi di crisi geopolitche sempre più gravi e di timori di un nuovo riaccendersi dell’inflazione ha assunto un ruolo rilevante come fattore di diversificazione e di stabilizzazione nei portafogli degli investitori. Da inizio anno le quotazioni del metallo sono cresciute del 27% toccando un massimo di 3.500 dollari l’oncia. Attualmente viene scambiato a circa 3.390 dollari l’oncia, ma ieri le quotazioni non hanno subito particolari oscillazioni. Mentre a New York è stato toccato un picco intraday 3.534 dollari l’oncia a Londra la chiusura è stata a 3.391 dollari, un modesto rialzo dello 0,11%. Al di là delle dinamiche tariffarie odierne, che si inseriscono nel quadro della più ampia guerra commerciale innescata dagli Stati Uniti contro il resto del mondo, l’oro ha ripreso da tempo a svolgere un ruolo di primo piano nella ridefinizione degli equilibri finanziari e monetari a livello globale. «Da circa 4 o 5 anni si sta accentuando il fenomeno della de-dollarizzazione, la riduzione delle riserve in dollari detenute dalle Banche centrali, in particolare quelle dei Paesi emergenti. E proprio le Banche centrali di questi Paesi hanno acquistato una media di mille tonnellate di oro l’anno, alleggerendo le proprie posizioni in dollari», spiega Matteo Ramenghi, chief investment officer di Ubs Wealth Management Italia. 

Chi ha venduto

A vendere sono stati alcuni Paesi sviluppati, tra cui la Germania, che da un massimo di 3.468 tonnellate ha portate le riserve auree alle attuali 3.350 tonnellate. Restano invece stabili gli stock accumulati dagli Stati Uniti, fermi a 8.133 tonnellate. Mentre l’Italia, terzo Paese al mondo per riserve auree, è proprietaria di un patrimonio di 2.451 tonnellate, pari a un valore, ai prezzi correnti di circa 250 miliardi. La mossa di tassare l’oro, secondo alcuni, potrebbe avere l’obiettivo di favorire una riduzione delle riserve auree e una loro sostituzione con le criptovalute, da poco entrate a far parte delle riserve ammesse dalla Fed. Gli Usa, Paese superindebitato con un rapporto debito/Pil al 124%, devono infatti collocare montagne di titoli in dollari ogni anno. L’ammissione nelle riserve delle banche centrali di monete digitali come lo «stablecoin», il cui valore è garantito da un caveau di titoli del Tesoro Usa, potrebbe essere funzionale all’obiettivo di vendere al resto del mondo il debito Usa, prima che si deprezzi troppo a causa della svalutazione del dollaro. 

9 agosto 2025 ( modifica il 9 agosto 2025 | 07:12)