di
Elvira Serra

Costanza Marongiu: «I figli dell’anima? Non ce la faccio a chiamarli così. Suo marito non l’ho mai sentito»

DALLA NOSTRA INVIATA
CABRAS (ORISTANO) – La casa è bassa, accanto allo stagno di Cabras, Terra di Giganti, come avverte il cartello stradale all’ingresso del paese, alludendo ai pugilatori, agli arcieri e ai guerrieri scolpiti tremila anni fa in blocchi di calcarenite che sono esposti nel Museo civico a un passo da qui. Costanza Marongiu, 78 anni, mi passa le chiavi dalla finestra, perché possa aprire io stessa. Lei è seduta su una sedia a rotelle. Ogni mattina una donna l’aiuta a prendersi cura di sé, un’altra pensa alla casa e al pranzo. «Ma tutto quello che posso, lo faccio da sola», aggiunge ferma. Le fa compagnia Lilli, «pura razza bastarda», di 15 anni. Mi prende le misure mentre di spalle preparo il caffè, sistemo le tazzine sul lavandino, aggiungo un cucchiaino di zucchero per ognuna. «Ormai sai tutto», dice. L’esame è superato. Lascia che tolga il posacenere pieno di mozziconi di sigaretta e si allunga per estrarre da un cassetto un vassoio intonso di biscotti di pasticceria. Ha una pelle bella, vera, segnata da scelte dure. Quando sorride, gli occhi si illuminano. È il sorriso di Michela Murgia, sua figlia.

Costanza, domani saranno due anni dalla scomparsa. Cosa farà?
«Non lo so, mi disturba la gente. Hanno detto cose cattive».



















































Che cosa?
«Che non ho pianto, non ho urlato, non ho fatto niente. Ma io non dovevo né piangere né urlare, io sono fatta così. Anche perché Michela è qua, perennemente qua. Mia figlia non è mai mancata un giorno. Anzi, quando la sogno stiamo litigando. Ancora continui?, le dico».

E lei?
«”Ancora mi fai arrabbiare, mamma. Non mi hai mai capito”. Abbi pazienza, le rispondo, neanche tu a me. Però io manco a lei, lo so, e lei manca a me, tanto, tanto, tanto».

I figli di anima di Michela li sente? La vengono a trovare?
«Io la sua famiglia queer non l’ho mai capita e gliel’avevo detto. Non riesco a chiamarli figli di anima, questi ragazzi. Non li sento vicini a me, non riesco a immaginarmi parte di questa famiglia allargata. Forse, l’unico che adesso mi sta venendo incontro e che sta cercando di farsi capire è proprio Francesco».

Francesco Leone, il cantante lirico.
«Mi sembrava tutto capricci e Michela ha fatto di tutto per renderlo ancora più capriccioso. È il Chirù del libro. Aveva 18 anni quando ha chiesto a Michela di prenderlo come figlio d’anima. Lei mi aveva chiesto cosa ne pensassi e io le avevo risposto: in questi casi non penso, il mio cervello è chiuso in cassaforte, è una scelta tua. Sono sempre stata dipinta come una madre di ferro, non è così: quella è la loro vita e io non sono mai voluta entrare in merito».

Di cosa parla con Francesco?
«Parliamo di Michi, ma finalmente senza quell’innamoramento tipico di chi è convinto che una certa persona sia troppo grande per lui. Michi era una di noi, con tutti i pregi e i difetti. Non voleva essere di più, voleva essere quella che era. Se qualcuno l’ha odiata per questo ha sbagliato lui, non Michi».

A Polignano a Mare l’ex deputato Italo Bocchino dialogando con Antonio Padellaro ha detto: «Chi se ne frega della Murgia».
«Ma da lui cosa si aspettava? Il bello di questi di destra è che si erano talmente consolidati nella loro posizione contro Michela che pure chi non aveva mai letto un rigo aveva da ridire. Del resto, questa è una destra anomala: non sono abbastanza cattivi per essere di destra, né abbastanza buoni per ammettere di non esserlo. Ora ci pensa la Meloni a sistemare tutto».

Le piace?
«No. Non mi piace nemmeno Elly Schlein, non ha spina dorsale. È svizzera. E che ci piaccia o no, le radici, l’educazione ricevuta, fanno di noi quello che siamo. So che erano amiche, ma Michela gliel’aveva detto che si stava mettendo in una fossa di scorpioni».

Si ricorda di quando è nata Michela?
«E come potrei dimenticarlo? È nata alle 6 del mattino, pesava tre chili e 800. Abitavo a casa di mia madre, intorno al letto c’erano lei, mia sorella Annetta e il padre. Dopo, è cominciata la processione delle comari che volevano vedere se era ben fatta, malfatta, insomma per tutto il giorno c’è stato questo avanti e indietro, una roba che oggi caccerei tutti fuori. Le avevo preparato il corredino con l’uncinetto».

Qual è stata la sua prima parola?
«Pastasciutta. In realtà disse “papniei”. Io ero tutta speranzosa che dicesse mamma e invece no, con il dito aveva indicato perentoria la pastasciutta».

Due anni fa mi aveva raccontato che il suo piatto preferito erano gli spaghetti con le arselle di Mistras. Li ha più preparati?
«No».

Ha incontrato la governatrice sarda Alessandra Todde?
«Sì, ci teneva a conoscermi. Aveva chiuso la campagna elettorale dicendo che si sarebbe impegnata anche per Michela. Ma quello che ha fatto Michela non lo farà mai nessun altro: in sei mesi aveva girato la Sardegna paese per paese, stringendo mani a così tante persone che non si può raccontare».

In campagna elettorale non disse che aveva un tumore. Il primo.
«Al rene. Il tumore è una malattia falsa, sembra finito ma non è mai finito. Lei non voleva fare la vittima e non lo disse a nessuno, neanche a me. Me lo disse dopo che si era operata».

Dove si era fatta curare?
«In Francia, dove avevano un amore viscerale per lei. L’hanno perfino nominata Cavaliere delle arti e delle lettere della Repubblica francese. Ne era stata contenta, anche Chiara Valerio e Teresa Ciabatti erano state felici per lei».

Le sente?
«Chiara l’avevo chiamata subito, perché volevo parlare con lei di Michela, ma era talmente affranta che mi ha chiesto tempo. Ci sono voluti sei o sette mesi. Dico la verità: lei è quella che ha sofferto in assoluto di più».

E Lorenzo Terenzi, il marito?
«No, lui non l’ho mai sentito. La nostra non è solo una distanza di spazi, è una distanza di persone che non hanno avuto grandi rapporti neanche prima. L’ho pure rimproverato, tramite Francesco, perché vorrei che le ceneri di Michela fossero qui, a casa con me».

Dove sono adesso?
«Nella casa di Roma, dove vive Lorenzo».

Michela aveva chiesto che fossero disperse in Corea del Sud.
«No, no, no, no. Questa mania di Michela per la Corea le era venuta negli ultimi due o tre anni e infatti l’ho detto a tutti: ragazzi, fatemi la cortesia, non ascoltiamola in questo frangente. Era d’accordo anche Alessandro (Giammei, altro figlio di anima di Michela Murgia, con Raphael Luis Truchet, Riccardo Turrisi e Francesco Leone). Le sue ceneri le vorrei qui con me, dove sono anche tutti i suoi premi, che lei mi aveva dato. Mi ha chiesto di conservarli io: è stato il suo regalo più grande. Poi quando sarò morta torneranno ai ragazzi».

Le sarebbe piaciuto che Michela vincesse il Nobel per la Letteratura?
«Sì, lo avrebbe meritato. Mi sarebbe piaciuto un riconoscimento di quel livello per convincere certe persone che lei valeva tanto».

Cosa provò quando vinse il Campiello?
«Mi chiamò per dirmelo e mi chiese se l’avevo guardata in tv. Le risposi di no, che stavo lavorando nel ristorante. E aggiunsi: ma tanto lo sapevo che lo avresti vinto tu, perché gli altri libri io li ho letti e il tuo era il più bello di tutti».

Ha già letto l’ultimo libro postumo, «Anna della pioggia»?
«Quel racconto in particolare non mi è piaciuto: chi è questa pazza che si mette a correre sotto la pioggia? Ma ce ne sono altri… Il fatto dell’aragosta è successo per davvero. Da poco è passata a trovarmi Francesca, che riforniva i ragazzi dell’aragosta per le gite con l’Azione cattolica, e gliel’ho detto. Lei mi ha risposto contenta che Michela glielo aveva promesso».

L’anno scorso si è parlato dei debiti lasciati da Michela, compresi quelli sulla casa dove vive lei adesso. Sono stati estinti?
«Su questa casa non ci sono debiti, era stata pagata con i soldi del Campiello e una piccola parte l’avevo messa io, per i mobili. Michi aveva acquistato la nuda proprietà, lasciando a me l’usufrutto. I debiti grossi riguardavano la casa di Roma, ma penso siano stati pagati con le royalties degli ultimi quattro libri e del film che uscirà dopo l’estate tratto da Tre ciotole».

C’erano anche tante multe non pagate.
«Sulle multe Francesco dovrebbe fare un mesto mea culpa: la macchina di Michela a Cagliari la usava lui, io lo chiamavo per dirgli di venire a prendersele. Nel testamento non mi ha lasciato nulla, ma io non volevo nulla».

E al fratello Cristiano?
«Nemmeno lui è nominato».

Non ha due figli?
«I figli se le faranno da soli le loro cose, se le vorranno, e gli daranno un valore più grande».

Zia Annetta c’è sempre?
«Sì, certo. Non cammina più nemmeno lei».

«Accabadora» era dedicato a voi due: per Michela, zia Annetta era un’altra madre.
«Io e lei abbiamo impiegato un anno e mezzo a renderci conto che Michela non c’era più. Lei più di me, perché io, nel bene o nel male, mia figlia la sentivo per telefono mentre a lei Michela non rispondeva più, non voleva darle un dolore dicendole cosa aveva. Non tornava in Sardegna da tre anni, a lei bastavano le telefonate, viveva con il telefono. Io protestavo che non era lo stesso. Non aveva nemmeno voluto che andassimo a trovarla nella nuova casa».

Questo non è possibile.
«Aveva spaventato me e Cristiano parlandoci di questo posto dissestato dove c’erano i muratori, non c’era un posto per dormire, dove in definitiva non voleva che noi andassimo».

Cos’ha provato?
«In un primo momento era rabbia, ero molto arrabbiata. Poi ho accettato la scelta, anche se non è una scelta che non è costata niente».

Roberto Saviano l’ha chiamata?
«No».

Lui e Michela erano molto legati.
«Lo so. Però deve tenere conto che Michela era una che riusciva ad accentrare su di sé tutto. Che avesse madre, fratello o altro non interessava a nessuno. Bastava che ci fosse lei. Lei riempiva i vuoti di tutti. A Saviano ha fatto quasi da madre, era l’unica, o una delle poche, che accettava la scorta. Io non avrei mai accettato di incontrarlo con due carabinieri intorno».

E invece il primo marito, Manuel Persico?
«No, lui non si fa sentire. Michela lo ha sposato due o tre giorni dopo il Campiello. Ci ha fatto la sorpresa alla cena che avevo preparato al ristorante per festeggiare il premio. Le avevo fatto una torta a forma di libro e quando mi ha chiesto di scrivere i nomi di Michela Murgia e di Manuel Persico le ho chiesto cosa c’entrasse. E lei: c’entra, c’entra, non ti preoccupare. Erano venuti pure i suoi amici di Einaudi. Alla fine, mentre si cantava e si ballava, lei dice: adesso andiamo a Milis; Franco Murana (il parroco, ndr) ci aspetta per sposarci. Non lo sapeva nessuno. Ma sei pazza?, ho chiesto. No no, è tutto pronto: ci sposa a mezzanotte. Un freddo boia. Anche allora non ho capito mia figlia».

Perché?
«Non capivo cosa ci trovasse in lui. Era bello, molto bello. E a questa bellezza un po’ infantile corrispondeva una intelligenza infantile».

Mi perdoni, Costanza. Ma lei che lezione poteva dare a sua figlia? Suo marito era stato un compagno molto difficile.
«Difficile? Mio marito era un compagno impossibile. Ma almeno io in qualche maniera ero giustificata, mentre lei ha conosciuto Manuel che viveva già in Continente».

Cosa giustificava lei e non Michela?
«Io avevo tutto cointestato a questo uomo, il ristorante, la casa, i debiti con la banca. Pagavamo rate da cinque milioni al mese. Il debito mi faceva troppa paura, lui non mi avrebbe mai permesso di andarmene e se lo avessi fatto ci avrebbe ridotto su una strada. Michela voleva che lo lasciassi, diceva che avremmo lavorato noi tre, saremmo bastati io, lei e il fratello per pagare i debiti, ma ho avuto paura. Nessuno sapeva dell’inferno che io vivevo in casa mia. Nemmeno lei lo ha mai capito».

Quando il padre è morto, Michela non è venuta al funerale. Non lo ha mai perdonato perché non si era mai pentito.
«Tonio non si poteva pentire: era schizofrenico, egocentrico e alcolizzato. È morto in una struttura a Milis 15 anni fa. Godeva della sua cattiveria. Quando gli dicevo fatti curare, tu non stai bene, lui andava dal medico e prendeva le medicine con il solito litro di vino. Era invidioso dei figli, non voleva che Michela tornasse a scuola».

L’aveva lasciata?
«Era sempre stata bravissima, poi si è iscritta al classico a Oristano, ma non si è trovata bene in quell’ambiente snob, di figli di dottori, ingegneri e avvocati. Così si è ritirata e l’anno dopo si è iscritta all’istituto tecnico. Lei non sa che il padre non voleva: lui non voleva che lo superasse in intelligenza. La sfidava. Michela non sa cosa ho passato io, nessuno lo sa».

Lei lo ha perdonato?
«No, non lo perdonerò mai, perché ha vissuto la mia vita, la vita di Michi e di Cristiano».

La notte del 26 dicembre 1990, quando portò i suoi figli da Annetta e Michela decise di non tornare più a casa con voi, cosa era successo?
«Quel Natale non è rimasto un mobile in piedi, li aveva spaccati tutti. Così ho preso i miei figli e li ho portati da Annetta, spiegando che dovevano restare lì fin che il loro padre non si calmava. Alla fine ho fatto quello che voleva lui: non li voleva i figli tra i piedi. Poi Cristiano è tornato per non lasciarmi sola e il padre lo tollerava perché era più mansueto, non gli rispondeva mai: è sempre stato il più dolce, il più buono di noi».

Quale errore si rimprovera di più?
«Tanti, non solo uno. Non sono stata capace di reagire quando dovevo. Una volta lui mi ha incendiato casa, ne abbiamo salvata mezza. Michela manco a farlo apposta stava passando a salutare me e ha dovuto vedere pure quello».

Oggi come passa le giornate?
«Guardo la tv, leggo, scrivo».

Cosa scrive?
«Fesserie. Pezzi di vita. Il mio rapporto con mia madre, con il parroco che detestavo, con l’Azione cattolica dove stavo malissimo e dove invece Michela ha trovato gli amici più cari».

Rilegge i libri di sua figlia, per ritrovarla?
«L’ho ritrovata più nei saggi che nei romanzi. Ave Mary è proprio lei. Ricordatemi come vi pare, però, mi ha fatto male».

Perché?
«Per quello che scrive su di me e su zia Annetta, io la figlia sbagliata, mia sorella quella giusta, che anziché rifiutarsi di accoglierla quel Natale, anziché fare un passo indietro, se l’è tenuta. Annetta non ha avuto figli e per lei Michela era una figlia. Ma di questa figlia non aveva capito il valore, a lei sarebbe bastato che rimanesse nell’Azione cattolica a Cabras. Era convinta che fosse sua figlia dalla prima comunione di Michela. Ma Michela era figlia mia».

Nell’intervista sul «Corriere» in cui Michela parlò per la prima volta di avere un tumore al quarto stadio, ad Aldo Cazzullo disse che pensava in sardo e poi traduceva in italiano. Voi in che lingua parlavate?
«Non abbiamo mai fatto questa differenza, parlavamo sia in italiano che in sardo. Ma capisco cosa intendesse Michela: pensare è un discorso, parlare un altro. Se sei arrabbiato i pensieri sono sardi; se sei andato a ballare, i pensieri possono essere anche in italiano».

Lei è credente?
«Se si tratta di credere in Dio, io credo in Dio. Se si tratta di credere nella Madonna, credo nella Madonna. Se si tratta di credere nell’apparato gerarchico della Chiesa, non ci credo».

Pensa che incontrerà di nuovo Michela dopo la morte?
«Anche prima, penso io».

E come?
«Perché tutte le sere io la saluto, le dico buonanotte: mia figlia è qui. Ecco perché non riesco a piangere. Perché ancora non riesco a non vederla qui, anzi, continuo ad arrabbiarmi».

Cosa la fa arrabbiare così tanto?
«Le ultime giornate della sua vita le ho prese inizialmente come un tradimento. Non poteva non aver bisogno della madre. Non mi ha dato la possibilità di salutarla. E così adesso lei non è mai andata via, per me. Lei è qui».

Forse lo ha fatto apposta.
«Poteva restare qua anche senza fare così».

Se avesse potuto salutarla, cosa le avrebbe detto?
«Solo due parole: che su molte cose su di me lei si è sbagliata, e questo mi fa davvero male».

Chi è oggi l’erede di Michela Murgia?
«Michela l’hanno dipinta come volevano, ognuno a modo suo. Ha ragione Chiara Valerio, che mi ha detto: nemmeno io la conoscevo bene. Mia figlia la amo anche per questo: non è mai salita su nessun carro, è stata sé stessa. Nessun’altra può prendere il suo posto».

9 agosto 2025 ( modifica il 9 agosto 2025 | 08:07)