Roberta Scorranese / CorriereTv

L’ultimo colpo di scena lo ha messo a punto da morto: nel 2017, quando il suo corpo venne riesumato brevemente per un test del dna, gli analisti rimasero senza parole sollevando il coperchio della bara. I suoi baffetti erano intatti, freschi e disposti all’insù come nei tempi migliori, nonostante i 28 anni di sepoltura. Come per Hercule Poirot, anche per Salvador Dalí i baffi non sono mai stati un banale vezzo: sono stati un’appendice cerebrale, l’estensione di una genialità che per manifestarsi aveva bisogno di simboli. 

I baffetti, il bastone con il pomo dorato, le scarpe coloratissime, le pellicce da primadonna: il catalano nato nel 1904 è stato — tra le tante cose — anche un pioniere dell’artista come «personaggio», macchina pubblicitaria di sé stesso. A partire da ottobre, una mostra a palazzo Cipolla, Roma, ce lo racconterà tra «Rivoluzione e Tradizione», come recita il titolo e penso che sia una sintesi pertinente della sua carriera. Cominciata sotto le stelle più tradizionali, con rigorose lezioni di pittura e di disegno e culminata nella trasgressione più estrema. Una parabola, quella di Dalì, che va inquadrata nel suo tempo: vive nell’epoca delle rivoluzioni culturali, quella di Freud che invitava a guardarsi dentro e quella dei grandi conflitti novecenteschi, trauma per milioni di giovani. 

Entra nel movimento dei surrealisti, un gruppo di intellettuali che reclamava libertà di espressione e di sguardo sul mondo: ma era un movimento apertamente politico, comandato da André Breton. Dalí coglie al volo il paradosso e si dichiara troppo libero anche per i liberi interpreti del sogno e così balla da solo. Provocazioni al limite della legalità, feste da capogiro, modelle e modelli che vagavano nelle case dove lui e Gala, un po’ moglie, un po’ musa e un po’ manager, dichiaravano di vivere senza alcuna regola. 

In lui hanno convissuto il fedele franchista e l’apolitico, l’ammiratore del papa e l’agnostico. «L’unica differenza tra me e un pazzo è che io non sono pazzo», disse. E quanto aveva ragione: fece soldi a palate. Ma quello che davvero ci interessa è il salto estetico che farà più avanti, quando ormai i suoi dipinti e le sue installazioni valevano milioni di dollari: comincerà a firmare dei fogli in bianco che poi i suoi assistenti dipingeranno, inaugurando quello che per tutti è un mercato del falso, ma che per lui è la punta estrema di una creatività moderna, senza alcun padrone, nemmeno del talento. Se negli anni precedenti Marcel Duchamp aveva desacralizzato l’arte esponendo un comune orinatoio, Dalí consacra la firma dell’artista come unico elemento riconoscibile sul piano estetico e valoriale. Non ricorda un po’ il sistema delle griffe di oggi? 

Dalí è stato uno dei precursori del mondo in cui viviamo, nel quale non conta tanto l’oggetto quanto il «brand», non tanto la qualità di un tessuto quanto la firma, non tanto una buona manifattura quanto un sistema di comunicazione e di mercato che fa lievitare il prezzo di una banana fino a 6,2 milioni di dollari, come è successo a Comedian, installazione di Maurizio Cattelan battuta all’asta nel novembre 2024. Ecco perché in Dalì Rivoluzione e Tradizione convivono senza stridori: come convivono genio e buffone, omo ed etero, antico e moderno. In una parola, Dalì è un contemporaneo che non si esaurisce mai. Come i suoi baffetti eterni.

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09 agosto 2025

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