Siracusa, 30 giugno. L’estate qui in Sicilia è arrivata da un pezzo. Alla Zaratan, una piccola libreria indipendente prima dell’ingresso di Ortigia, trovo esposte le biografie della collana Oilà edite da Electa e decido di prenderne alcune sotto consiglio di un amico. Fra quelle esposte, non posso che esimermi dallo scegliere il numero dedicato alla vita di Niki de Saint Phalle, scritto da Lorenza Pieri e pubblicato nel 2024.
Niki de Saint Phalle (1930 – 2002) è stata un’artista energica, intensa e multiforme. Fra i protagonisti del Nouveau réalisme – movimento di cui ha fatto parte sin dai primi incontri avvenuti con Tinguely, Spoerri, Klein alla fine degli anni ’50 – è stata pittrice, scultrice, performer e regista di film sperimentali. La vicenda biografica di Niki de Saint Phalle è talmente piena e tormentata da apparire quasi una sceneggiatura teatrale e si avverte già tra le righe il peso divorante con cui ha dovuto convivere per tutta la sua vita. Nonostante tutto, la sua forza plasmante di donna e artista le ha consentito di trasformare la vita e la materia, fino a creare mondi nuovi.
Nel ritratto tracciato da Lorenza Pieri, gli aspetti biografici convivono con l’energia creativa di Niki, chiamata nel testo volutamente solo con quel nome «che la libera dai cognomi degli uomini» che violentemente si sono inseriti nella sua vita. Il punto di forza di questo libriccino, però, risiede nell’identificare quegli eventi traumatici non come motore della sua ricerca artistica, ma come antefatti involontariamente subiti che Niki de Saint Phalle, grazie alla sua forza vitale, riesce a esorcizzare e a trasformare in quella che Pieri definisce «potenza creatrice femminile».
L’intera produzione artistica di Niki de Saint Phalle è un atto di ribellione e rinascita: nei primi anni ’60 propose le ben note azioni performative che prendevano il nome di Tirs (o Shooting paintings), in cui il gesto artistico assumeva un valore catartico e di liberazione individuale e collettiva; ma è anche un atto di riaffermazione della femminilità, come suggerito dai corpi rotondi e variopinti delle Nanas. È un’artista che non ha avuto paura di provocare, come nella gigantesca Hon realizzata per il Moderna Museet di Stoccolma nel 1966, né di creare visioni orrifiche, come nel film Daddy del 1973.
Volevo un regno più grande è una lettura breve ma intensa, un viaggio perturbante ma colmo di vita, che condensa in poche pagine un’esistenza complessa e un animo artistico difficile da contenere in una singolarità. È una lettura che ha bisogno di silenzio e di luoghi isolati per essere apprezzata. Quel 30 giugno, di pomeriggio, immersa nel verde della Necropoli di Pantalica, sentivo la forza creatrice e autodistruttiva di questa artista convivere in un’unica eco. Si avvertiva tutto il peso dell’«estate dei serpenti».