Trent’anni anni fa in pochi avrebbero creduto che il più lucroso accordo della storia dell’export israeliano sarebbe stato siglato con l’Egitto. La NewMed Energy, proprietaria di una quota del 45% – un altro 40% è detenuto dalla Chevron – del giacimento di gas naturale Leviathan attivo dal 2019 e situato al largo della costa settentrionale israeliana, ha annunciato ieri la firma di un accordo da 35 miliardi di dollari per l’esportazione di gas naturale all’Egitto, alle prese con una crisi energetica che va avanti da almeno tre anni, nel corso dei quali, con la produzione in forte declino, ha dovuto importare altrettanti miliardi di dollari del costoso Gas Naturale Liquefatto (LNG). La produzione egiziana di gas, secondo i dati disponibili, è passata infati dai 6,1 milioni di metri cubi di marzo 2021 ai 3,5 dello scorso maggio, con un crollo del 45%.

L’accordo mette anzitutto la parola fine sulle antiche ambizioni dell’Egitto che prima del 2022 aspirava a diventare esso stesso un hub regionale per la fornitura di gas. Il giacimento Leviathan le cui riserve sono stimate in circa 600 miliardi di metri cubi di gas, ne venderà al Cairo circa 130 miliardi fino al 2040. Questo gas verrà pompato tramite gasdotti, una modalità molto meno dispendiosa rispetto al trasporto di LNG, che richiede costosi processi di raffreddamento ed una successiva rigassificazione una volta giunto a destinazione. Analisti citati dall’agenzia Reuters stimano il costo medio del LNG in circa 13,5 dollari per ogni milione di British Thermal Unit (mmBTU), senza contare i costi di affitto delle unità di stoccaggio e rigassificazione galleggianti: si tratta di quasi il doppio dei 7,75 dollari del gas israeliano. Secondo una serie di fonti vicine all’accordo, l’accordo tra Egitto e Israele sarebbe stato concluso con una maggiorazione del 20% rispetto al citato prezzo di mercato del gas israeliano. Secondo i dati del Joint Organisations Data Initiative, il gas israeliano copre circa il 15-20% del fabbisogno egiziano.

La firma di questo accordo genera una serie di interrogativi, in particolare rispetto alla postura egiziana sulle operazioni militari israeliane nella Striscia di Gaza, e sulla distanza tra il regime di Abdel Fattah Al Sisi ed una buona parte della società egiziana, storicamente empatica o perlomeno solidale con i palestinesi. Sin dal trattato di pace tra Egitto ed Israele, siglato nel 1979, le relazioni tra i due paesi sono state spesso definite con le categorie di una “pace fredda”, e secondo un sondaggio di Arab Barometer condotto nel 2022 solo il 5% degli egiziani si diceva favorevole alla normalizzazione con Tel Aviv. Secondo un altro sondaggio del Washington institute, realizzato lo stesso anno, solo il 14% degli egiziani guardava positivamente ai cosiddetti Accordi di Abramo, e solo l’11% degli egiziani riteneva “accettabile” avere contatti di tipo commerciale con Israele.


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Se negli scorsi mesi Il Cairo stesso era stato accusato di indifferenza verso la sorte dei palestinesi, quando non di complicità con Israele – durante la rappresaglia missilistica iraniana su Israele a centinaia di cittadini israeliani era stato permesso di passare il valico e rifugiarsi temporaneamente nel Sinai, laddove ai palestinesi sotto attacco da due anni non era stata offerta questa possibilità – l’accordo rischia di sancire e rafforzare la percezione in Egitto e nel mondo arabo di un Paese ormai obbligato alla sudditanza verso Tel Aviv pur di salvaguardare la propria economia, o alemno i servizi essenziali offerti alla popolazione. Negli ultimi anni, infatti, nel Paese si sono moltiplicati i blackout energetici, soprattutto nei mesi estivi, ed il governo aveva promesso nemmeno un mese fa che non avrebbero avuto più luogo. A sua volta, Israele entra in possesso di un’altra importante carta negoziale.

Ironia della sorte, solo lo scorso giugno, all’indomani degli attacchi israeliani in Iran che avevano provocato l’interruzione delle attività e dell’export del Leviathan, in Giordania era stata lanciata una campagna con diverse figure pubbliche unite attorno al banner della “Campagna Nazionale per la cancellazione dell’accordo sul gas con l’entità sionista” per cancellare l’accordo sull’export di gas che Israele ha siglato anche con la Giordania stessa nel 2016, in virtù di una clausola che permetterebbe l’annullamento dell’accordo in caso di cause di forza maggiore, come disastri naturali o, appunto, l’avvio di conflitti armati. Secondo i rappresentanti di quella campagna, la dipendenza di Amman dal gas di Tel Aviv costituisce un “triplo crimine”: il primo è che espone la sovranità nazionale al ricatto politico; il secondo è che convogliava 10 miliardi di fondi pubblici giordani nelle casse israeliane; e il terzo è che precludeva alla Giordania la possibilità di investire quei fondi in alternative sostenibili e possibilmente domestiche. Come noto, Amman ha fornito il proprio supporto ad Israele durante la guerra con l’Iran, attivando le proprie difese aeree all’arrivo dei missili da Teheran.

L’Egitto ha avuto e in parte sta avendo un ruolo nelle negoziazioni tra Tel Aviv ed Hamas sul cessate il fuoco, mostrandosi timidamente critico rispetto alla condotta bellica degli israeliani che attualmente bloccano da settimane l’ingresso degli aiuti umanitari al valico di Rafah, al confine con l’Egitto stesso. Oltre a più di 60mila morti in due anni, almeno 200 persone sono morte di fame nella Striscia.