di
Greta Privitera
La città sarebbe la prima a essere occupata. Le voci degli abitanti: «Abbiamo paura, ma preferiamo morire che andarcene. Vivremo tra le rovine»
Il ristorante preferito di Yousra Elhalees si chiama Mazaj. Si trova, o forse si trovava — Yousra non sa se è ancora in piedi — all’incrocio tra via Al-Nasr e via Al-Thawra, a Gaza City. Ogni mercoledì ci andava a cena con gli amici «perché al Mazaj si mangiano sia piatti della tradizione che piatti occidentali: le loro patatine fritte sono squisite. Si potevano ordinare anche bibite italiane», dice la giovane ingegnera al telefono. Da tre mesi vive con la famiglia in una tenda nel campo profughi di al-Mawasi, «ma sono di Gaza City, il posto più bello del mondo». Fino a novembre 2023 abitava a Rimal, un quartiere benestante al centro della città, a trecento metri dal mare. A Rimal c’erano centri commerciali, ristoranti, alberghi, uffici delle organizzazioni umanitarie.
Tutto è cambiato
Di tenda in tenda
Ma dopo il 7 ottobre è stata una delle prime zone bombardate perché «un punto di appoggio di Hamas», diceva l’esercito israeliano. «Il nostro palazzo è stato colpito da un missile e da 21 mesi ci spostiamo di tenda in tenda, con mio nonno in sedia a rotelle. Se penso che la mia città potrebbe scomparire del tutto, mi viene voglia di tornarci a piedi e difenderla con il corpo», continua la ragazza, che ha 25 anni. Invece le sue amiche — Sarah e Aisha — sono tornate da sei mesi, dall’ultimo cessate il fuoco. Vivono in una villetta «sopravvissuta», a qualche metro da Al Rashid street, la via del mare. «E non staremo mai più in una tenda: meglio le macerie», affermano, perentorie, con una convinzione che deve essere figlia della giovinezza. Mohammed Rajab, anche lui di Gaza City, e anche lui che dice «non mi sposteranno da qui, preferisco morire», racconta però che la notizia di un’imminente occupazione della città da parte dell’esercito israeliano e il nuovo piano di evacuazione hanno creato panico: «Spero sia un bluff negoziale per fare pressione su Hamas», continua. Tra gli ottocentomila abitanti di Gaza City, molti dei quali tornati durante la tregua iniziata a gennaio, più del 70% ha meno di 25 anni. «I giovani — continua Rajab — pensano che troveremo la forza di ricostruire, nonostante tutt’intorno sia morte e fame. Ma chi è un po’ più grande ha meno speranza. Dove ci infilano questa volta? Ci deportano?».
Fragole e alberghi
Prima che la guerra si mangiasse ogni cosa, Gaza City era uno degli insediamenti urbani più densamente popolati del pianeta, con oltre 700 mila persone in un’area di 45 chilometri quadrati, suddivisa in 14 quartieri con un consiglio comunale formato da altrettanti membri, quasi tutti legati ad Hamas. Unico porto della Striscia, l’economia della città, segnata da decenni di conflitti e da un blocco imposto da Israele, si basava sulle piccole industrie, laboratori artigianali di tessuti, ceramiche, mobili, e la coltivazione di fragole, agrumi e olive. Anche Rajab dice che Gaza City è il posto più bello del mondo: «Sulla costa c’erano ristoranti e alberghi meravigliosi». Fa l’elenco: l’al Dira Hotel, il Commodore, il Routes, l’al Amal, il Gaza. «Quando parlo con le persone che non ci sono mai state, ho la sensazione che ci pensino un villaggio antico, poverissimo. So che è difficile da immaginare, ma c’erano bar, sale giochi, due centri commerciali come i vostri: si stava bene. Nessuno lo sa, ma siamo tra le popolazioni con il tasso di analfabetismo più basso del mondo». La disoccupazione arriva al 40%, ma c’è un’alta scolarizzazione. Le scuole, così come gli ospedali oggi a pezzi, sono gestite anche dalle organizzazioni umanitarie come l’Unrwa «e tutti parliamo un ottimo inglese», continua fiero Rajab, che spiega: «Facciamo fatica con l’acqua e l’elettricità perché sono gestite da Israele, ma per sopravvivere abbiamo pannelli solari e generatori».
Quattromila anni
Sami Abu Omar non è di Gaza City, ma ci lavorava. Racconta i suoi ricordi della città vecchia, «quando avevo i figli ancora piccoli». Con la moglie passeggiava per il mercato dell’oro, e andava a pregare alla moschea El Omary.
La città esiste da oltre quattromila anni, nel corso dei secoli è stata porto mercantile nel mondo romano, luogo di devastazioni e rinascite. Omar è convinto che solo il popolo palestinese può sopportare tutto il dolore di questi mesi. Dice che rinascere è la cosa che sanno fare meglio.
10 agosto 2025
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