Reperibili anche sul bagnasciuga: così le ferie diventano un miraggio

Può succedere ovunque: in spiaggia, sul divano, allacciandosi gli scarponi. Una breve vibrazione, a volte accompagnata dalla suoneria. D’improvviso spariscono la sensazione della sabbia tra le dita dei piedi, le scene della serie tv o la grandiosità delle sedimentazioni delle ere geologiche. Con un tocco sullo schermo del cellulare si torna in ufficio. Ogni email, messaggio o chiamata sembrano connotati dall’urgenza finché non vengono visualizzati.

A quel punto non rispondere diventa una forma di maleducazione, se non proprio di insubordinazione. Staccare dal lavoro durante le ferie è diventato sempre più complicato. Viene chiamata out of office anxiety: ansia da disconnessione. È una forma malsana di attaccamento al lavoro che si traduce in reperibilità quasi completa anche nei giorni di vacanza. Secondo una ricerca dell’American psychological association, il 21% dei lavoratori resta stressato anche in vacanza, il 28% continua a lavorare e il 42% prova ansia per il rientro. «Lo stress in sé non è un fenomeno negativo» spiega Nicola Magnavita, ex direttore della Scuola di specializzazione in Medicina del lavoro dell’Università Cattolica. «Tutte le cose che affrontiamo ci sottopongono a pressione, la vita stessa è stress. Di conseguenza le variazioni incidono sul livello di tensione, vacanze comprese».

Lo stress in forma patologica si verifica quando non avviene una decompressione: se non c’è il riposo le tensioni si accumulano. Il distacco è difficile perché il lavoro è sempre, letteralmente, a portata di mano. Tra email, chat aziendali, piattaforme di lavoro condiviso, ogni notifica permette di rimanere aggiornati sugli sviluppi delle attività e di intervenire in caso di necessità presunte o reali. Secondo un’indagine di Censuswide solo tre persone su dieci riescono a staccare durante le ferie. Questo comportamento viene chiamato digital presenteeism e spesso non è innescato da una richiesta specifica, ma da una cultura del lavoro che richiede assoluta dedizione e devozione. Uscire all’orario stabilito dall’ufficio, non essere disponibili nel fine settimana, avere dei momenti di distacco viene valutato negativamente.

«Questo atteggiamento è incoraggiato dai manager che praticano la cosiddetta leadership invasiva, che non rispetta le esigenze delle persone. A maggior ragione si utilizza il lavoro da remoto per chiedere a chiunque, in ogni momento, qualunque compito. Si tratta di una vera epidemia che possiamo constatare tutti i giorni» aggiunge Magnavita. La leadership invasiva instilla la paura nei dipendenti di apparire poco impegnati o non abbastanza produttivi, stimolando un contesto sempre più competitivo. E così anche chiedere le ferie e andare in vacanza si traduce in un segnale di poco impegno, pigrizia e disinteresse. In questi casi si parla di vacation shaming, la stigmatizzazione del riposo e dell’allontanamento dal lavoro. La completa reperibilità in ferie viene considerata un’opzione imprescindibile per non risultare inattivi e mettere a tacere il senso di colpa e la paura di sentirsi esclusi dalle attività lavorative.

«Queste dinamiche determinano il workaholism, cioè il drogarsi con il lavoro. Tutti vogliono dei lavoratori che lavorano, che non si lamentano e che producono sempre di più, iperproduttivi, andando di fatto a creare delle situazioni insostenibili dove la produttività si riduce e il lavoro diventa un’ossessione» sottolinea Magnavita. Da questo dipende anche la moda della workation, che consiste nell’aggiungere un paio di giorni di lavoro da remoto prima di un weekend o dell’inizio effettivo delle ferie e lavorare da luoghi di vacanza. Sembra una soluzione orientata alla flessibilità e all’ottimizzazione, ma nei fatti è l’ennesima, volontaria, abolizione della separazione tra lavoro e riposo. La lontananza fisica e non mentale riduce ancora di più l’efficacia rigenerativa dei giorni di ferie. Inoltre, trasformare il riposo in una scrivania con vista mare va a consolidare l’iper-reperibilità, che prolunga la situazione di stress lavorativo. Le soluzioni possibili sono diverse. Alcune aziende hanno introdotto politiche interne radicali che vanno dallo spegnimento automatico dei server delle email dopo le 18 al blocco nelle settimane delle ferie, fino al reindirizzamento automatico al sostituto del lavoratore.

Sul piano individuale si stanno diffondendo le quiet-cation, vacanze mirate alla disintossicazione digitale e al recupero di energie mentali. Rifugi in montagna, agriturismi isolati, piccole isole poco frequentate, spesso con programmi di digital detox, sono le nuove mete di chi cerca di recuperare la propria vita nelle pieghe della digitalizzazione.

Negli ultimi anni alcuni Paesi europei, con la Francia capofila dal 2017, hanno introdotto per via legislativa il diritto alla disconnessione. In Italia, pur non essendoci una norma esplicita, la disconnessione è prevista nella regolamentazione del lavoro agile contenuta nel Jobs Act, rimettendo le specifiche condizioni agli accordi collettivi. Sulla carta, nessun lavoratore dovrebbe essere obbligato a rispondere a email o chat aziendali fuori dal proprio orario di lavoro. «Serve coraggio non solo per scrivere leggi, ma anche per applicarle» afferma Magnavita, «se un capo ignora il diritto alla disconnessione chi lo denuncia? Nessuno».

Le alternative più temute sono perdere il lavoro o rendere l’ambiente ancora più tossico e negativo. Ed è in queste condizioni che si genera il burnout, l’esaurimento delle risorse fisiche e mentali. «Non bisogna mai asservirsi al lavoro. Va cercata la soddisfazione di aver fatto bene qualcosa, magari anche di utile per gli altri, ma soprattutto qualcosa che sia piacevole per chi lo fa» conclude Magnavita. Quello che serve, probabilmente, è il diritto alla leggerezza e alla distanza, la capacità di concepirsi individui anche senza un ruolo, avere conversazioni alternative alle chat, riuscire a stare in un posto nuovo senza conoscere la password del wifi.