Consapevolezze: «Come dice Tom Robbins, uno dei miei scrittori preferiti, non è mai troppo tardi per farsi un’infanzia felice. Io l’ho avuta, piena di divertimento, perché quando ero ancora un bambino ho capito che risorsa straordinaria potesse essere la fantasia. Fin da piccolo ho desiderato stare su un palco e far ridere la gente e per quanto possa ricordare, sono stato sempre molto curioso. Guardavo tanti film, leggevo compulsivamente e acciuffavo i volumi della biblioteca che i miei coetanei ignoravano appassionandomi alle biografie. Il primo libro che ho letto è stato sulla vita di Charlie Chaplin».
Convinto come lui che ogni giorno senza sorriso sia un giorno perso e che le sorprese non abbiano bisogno di troppe spiegazioni, Stefano Bollani è andato verso la vita cercando di godersela. Scrive, suona, immagina, inventa. Accumula premi, dischi e collaborazioni. È considerato tra i migliori musicisti europei e se se ne rende conto è bravissimo a nasconderlo: «Ho iniziato a suonare il pianoforte a sei anni, ma la mia vera fortuna è stata nascere in una famiglia in cui della musica non c’era traccia».
Perché è stata una fortuna?
«Perché mi ha permesso di essere una piccola star incompresa e di sperimentare in libertà: quello che facevo non piaceva a nessuno. Suonare mi ha tenuto letteralmente in vita: nelle attività di gruppo ero un disastro. Se c’era da spostare un mobile in casa lo facevo cadere, se organizzavamo una gita in bicicletta restavo indietro, se veniva una ragazza a casa io le facevo ascoltare una sinfonia e diciamo la verità, fuori dalla mia stanza, oltre i poster di Munch e di Kandinsky e il cuscino del Milan, la squadra che ogni tanto andavo a vedere allo stadio e in cui sognavo di giocare, c’era di meglio».
Cosa c’era in quella camera di ragazzo?
«Il mio luogo ideale. Per quanto fossi socievole, lì stavo bene e mi sentivo protetto. Mi è capitato di riassaporare la stessa sensazione all’epoca del Covid. Ero stato in giro a suonare per l’Italia e per il mondo fin dai miei 15 anni. Duecento, 250 serate l’anno, un girone allegro e al tempo stesso infernale. Quella pausa forzata, per quanto dolorosa, mi ha aiutato e mi ha ispirato. Mi ha fatto venire nuove idee, mi ha restituito dopo decenni il tempo per pensare».
Quando ha scoperto per la prima volta il jazz?
«Quando avevo 11 anni. Già da tempo cantavo sotto la doccia e aspiravo a essere un cantante pop alla Celentano, ma il jazz mutò la prospettiva. Ascoltare Charlie Parker era già essere altrove, in un’altra epoca, a Kansas City o a New York. Potrei chiamarla reincarnazione, seduzione o fascinazione, le definizioni in fondo sono sempre fallaci, ma si trattava di una cosa potente che avvertivo e che mi attraversava».
Potente in cosa?
«Prima di ogni altra cosa nell’improvvisazione e nell’idea che gli strumenti si alternassero e che a fare l’assolo fossero tutti i protagonisti. Io ero abituato al cantante pianista alla Carosone o alla Paolo Conte e invece nel jazz pulsava il colpo di scena, la democrazia ideale in cui non esistono leader perché chi sulla carta dovrebbe esserlo magari si è annoiato, ha lasciato il palco, come abbiamo visto in tanti film è andato a bersi una cosa al bar e il testimone è passato a un altro senza che la magia svanisca. La musica continua comunque. È un’isola felice, il jazz. Suoni quello che ti vieni in mente in quel momento, è come parlare senza seguire uno spartito. Uno propone, gli altri decidono se accompagnarti o al contrario creare delle dissonanze. E le dissonanze non sono meno belle delle consonanze, anzi».
Come trova un linguaggio comune ai suoi coetanei un bambino che ama il jazz?
«Non lo trova. Da quando sono stato rapito dal jazz, semplicemente, ho iniziato a frequentare quelli che avevano almeno 10 anni in più di me».
Fu doloroso?
«Per niente. Da ragazzo, rispetto al contesto dei miei amici, mi sarei sentito comunque un po’ alieno. Andare verso il jazz e verso la musica ha rappresentato un passaggio quasi naturale».
Ma a lei gli altri piacevano?
«Mi sono sempre piaciuti e mi è sempre piaciuta la compagnia. Sa cosa c’è? Che io gli altri li trovo molto bizzarri. Fin da bambino ho pensato. “Ma siamo sicuri che ragiono come tutti?”».
E cosa si rispondeva?
«“Forse no”. Poi, con calma, ho capito che chiunque di noi ragiona in maniera diversa dall’altro e che come scrive Paolo Sorrentino hanno tutti ragione perché ognuno è responsabile della propria realtà. Per capirlo c’è voluto tempo perché da ragazzino pensavo che il mondo che mi girava intorno fosse conforme a determinate regole da seguire ad ogni costo e che quelle regole così simili a tavole della legge non mi persuadevano».
Com’era il rapporto con l’autorità scolastica?
«E come vuole che fosse? Era tormentato. I professori mi domandavano: “Hai letto Verga?”, rispondevo che avevo divorato Kerouac e Bukowski e loro non erano poi così contenti. Uscivo dal seminato, non rispettavo il programma e ovviamente felici non potevano essere. Come non mancavano mai di ricordarmi andavo fuori tema, fuori strada, per conto mio».
L’inquadramento la opprimeva?
«Tutt’altro, mi liberava. Se mi costringi al banco per ore e mi imponi cosa devo leggere e ripetere, la mente, per istinto di conservazione, va a cercare qualcos’altro».
È un bene?
«È molto di più. È una benedizione, una salvezza. Così come per certi versi si rivela una splendida occasione persino il politicamente corretto che oggi domina ogni conversazione».
Che tipo di occasione?
«L’occasione di far brillare un’eresia, auspicabilmente intelligente, per tutti quelli che si comportano in modo opposto».
Le piacciono gli eretici?
«Se non ci fossero mi spiacerebbe molto».
Lei da ragazzo si sentiva eretico?
«Io non avrei fatto del male a una mosca, ma in classe facevo le battute e il verso agli insegnanti. Avevo inciso una cassettina con una canzone dedicata a quella di matematica. Questa professoressa che con il pennone in mano ballava la samba, muoveva l’anca e mostrava la gamba, messa in musica, anche grazie alle rime, tra i miei compagni aveva riscosso un certo esito».
Sarebbe piaciuta a Carosone.
«Carosone era più sottile, ma amandolo non è escluso che imitassi il suo stile. Da piccolo fan imberbe gli scrissi anche una lettera e incredibilmente ricevetti una risposta: “Studia il blues”. Aveva ragione. Ovviamente ero un bambino e non sapevo cosa fosse il blues, così andai nel negozio a due passi da casa, comprai un disco e mi feci una cultura».
Il primo disco che comprò fu un disco di blues?
«Ero retrò e comprai un disco di Nilla Pizzi. Per ascoltare il rock ci misi un po’. Tony Renis e Buscaglione, per dire, mi piacevano più di De André che trovavo verboso e troppo serio ed è strano perché se c’è uno che è stato quasi sempre ironico nella scrittura quello è proprio De André».
Cosa sono state le canzoni per lei?
«Il mio dizionario emotivo. Il mio e quello di molti altri che grazie alle canzoni hanno conosciuto una gentilezza che per esprimersi, come accade in letteratura, passa anche attraverso il dolore, ma non dimentica del tutto l’umorismo o l’ironia».
Li stiamo perdendo anche nella musica?
«Quando vedo che l’intero repertorio di Sanremo inneggia alla depressione, alla morte, alla mancanza di entusiasmo o all’incomunicabilità mi dico che sono sicuramente temi bellissimi, ma che è un peccato che per il sole e per la luce non sia rimasto neanche un piccolo spazio. Non pretendo che l’allegria sia imposta per decreto, per carità, però è arduo anche accettarne l’esilio forzato».
Prima ci parlava dell’ironia di De André. Cantautori amati da ragazzo?
«Mi vengono in mente Battiato, Caputo, Graziani e Branduardi, strani, fin dall’aspetto e strani perché mi pareva che facessero cose che non faceva nessun altro. Quelli pur bravi come Baglioni, quelli che parlavano d’amore, mi sembravano tristissimi».
Anche Battisti?
«Battisti no, in “che ne sai tu di un campo di grano” io non vedevo l’amore cantato, ma il guizzo poetico. Come in Azzurro, una canzone che anche oggi, a 52 anni, mi fa ancora piangere come un vitello».
Cosa pensavano i suoi genitori di questo giovane musicista? Piangevano o ridevano?
«Mi hanno accompagnato lungo la strada con una certa sobrietà, quasi come in una sessione jazzistica, senza mai premere in una direzione o in un’altra. Non sono mai stati ossessivi perché a casa nostra il fanatico ero io».
Si iscrisse al conservatorio.
«Avrei preferito non prendere il diploma, facevo le serate e faticavo a conciliare studi e impegni. Chi me lo faceva fare?».
Invece?
«Invece lo presi e come il Pablo di De Gregori con il treno, feci bene».
I primi soldi guadagnati?
«Da turnista, per Raf. Avevo vent’anni e fu un’esperienza molto divertente. Ero il più giovane di tutti e gli altri erano non solo più navigati, ma anche più disincantati. Dicevo “voglio fare jazz” e venivo commiserato: “Bravo, forse alla fine ti restano in tasca i soldi per la pizza”. Non era un ambiente che favoriva l’ingenua creatività, ma mi insegnò un mestiere. Le canzoni di Raf non avevano bisogno di tutto quello che tra accordi e scale ci avrei messo io, perché giustamente inseguivano la semplicità. Lui, pur timidissimo, me lo spiegò efficacemente: “Questa è musica pop, ha una sua struttura e un suo codice”. Fu utile, come fu importante fare poco dopo un tour con Jovanotti in cui imparai molte altre cose».
Come mai quella stagione finì?
«Perché dal nulla si presentò Enrico Rava, un jazzista sommo e chiese a me, che ero poco più che un praticante, di frequentare la sua università. Raf e Jovanotti mi piacevano, ma Enrico faceva esattamente ciò che sognavo di fare: andare in giro a improvvisare jazz, cambiando sempre gruppo di musicisti, incontrando altre persone, senza inseguire la perfezione della canzone, ma cercando ogni sera la bellezza dell’ispirazione. Non c’erano date, soldi certi né ingaggi. Ma mi sembrava comunque un’idea fantastica e non esitai a dir di sì».
Quando domandano a Caetano Veloso dove si nasconda il segreto che permette di trasmettere la libertà con le canzoni lui rifiuta di rispondere “perché il mistero della canzone coincide con il mistero della musica”. Lei a questo segreto si è avvicinato?
«Per niente. Ma il mistero della creazione musicale è un argomento che mi interessa. Quando chiedono a Paul Mccartney come sia nata Yesterday lui dice che l’ha sognata. Va bene, è una risposta plausibile, ma vorrei saperne di più: che sogno è stato? Come ha fatto a sognarla? E ancora, a cosa serve la musica? Io ho i miei sospetti».
Li vuole condividere?
«La musica coinvolge tutti e quindi ha un ruolo che non si limita al puro intrattenimento. È medicina, è cura, è vibrazione. Ci sono quelle che fanno male e quelle che fanno bene: il rumore del martello pneumatico disturba, Beethoven ti porta in paradiso. E non è necessario scomodare Pitagora, Marsilio Ficino o Giordano Bruno. Adesso sembro saggio, ma voglio rassicurare chi ci legge: è solo un’impressione».
Ha paura di sembrare troppo serio?
«Ho sempre paura di sembrare retorico. Per questo provo a fare il brillante: per togliere un po’ di enfasi alle parole, ne temo l’eccessiva serietà. Un pensiero per me è soltanto una possibilità tra le tante e mai un dogma. Voglio avere la libertà di affermare una cosa e tra 5 minuti dirne un’altra che la contraddice completamente. Se non ho questa opportunità preferisco star zitto. Tacere non è poi la peggiore delle punizioni».
Sua figlia Frida, un grandissimo talento musicale, è ipovedente. Quando l’ha scoperto a cosa ha pensato?
«Non sono stato contento ed è stata un’esperienza dura, ma la più brava è stata lei. Mi ha fatto capire che il suo mondo era quello e che lei non sentiva né una mancanza né un problema. Il problema nasce quando tutti intorno ti vogliono sminuire e far sentire diverso: lei non si sente tale, va avanti per la sua strada con una certa caparbietà e pensa semplicemente che osserva il mondo diversamente dagli altri».
Quando ha capito che sua figlia avrebbe sviluppato un rapporto speciale con la musica?
«Subito. Avrà avuto un anno e mezzo, forse due e già riconosceva tutte le note perché aveva l’orecchio assoluto. Non significa necessariamente che diventerai un musicista, ma io da musicista riesco a percepire di che dono incredibile si tratti».
Adesso qualche volta vi capita di suonare insieme.
«La musica è una cosa che tiene insieme questa famiglia animata da gente che abita un po’ di qua e un po’ di là. Ritrovarsi e capirsi per mezzo di quel linguaggio è una specie di miracolo».
È un miracolo anche innamorarsi in aeroporto e restare insieme per quindici anni?
«Probabilmente sì».
A lei con Valentina Cenni è accaduto. Come si resiste 15 anni insieme restando allegri?
«Cercando di non reprimersi e non nascondersi i sentimenti del momento. Le nuvole non vanno mai messe sotto il tappeto e far finta che qualcosa che ci ha disturbato non ci abbia infastidito è controproducente. Ci si capisce se si parla tanto e subito di tutto ciò che non va. Procrastinare peggiora le cose e in amore bisogna andare all’avventura disarmati altrimenti, prima o poi, qualcuno spara».
Le dà fastidio quando la chiamano maestro?
«Mi faceva ridere e mi fa ridere tuttora. Anche perché credo nella maggior parte dei casi utilizzino il termine in senso ironico. Maestro non mi sento e non credo che gli altri mi possano vedere come tale».
Saranno i capelli bianchi?
«Sono un bel vantaggio, però mi deve credere: quando ho compiuto 50 anni ero l’uomo più felice del mondo. Mi sono sempre sentito più vecchio di quel che ero: adesso finalmente mi sento l’età che ho».
Per fare cosa?
«Per dire all’interlocutore: “Senti, ho 50 anni, parliamoci chiaramente, saltiamo dei passaggi”».
Anche con quelli a cui non piace? O soprattutto con quelli?
«Vuole una risposta onesta? Io preferisco piacere, ecco, tutto qua. Poi se non piaccio a qualcuno, anche se mi dispiace, me ne faccio una ragione senza pensare che chi non mi vuole bene sia un cretino perché ci sono un sacco di artisti che non amo, ma non per questo penso siano degli imbecilli».
Qual è il vocabolo che la definisce meglio?
«Le ho detto che non vado pazzo per le definizioni».
Me l’ha detto, ma le chiedo uno sforzo.
«Le dico come non mi piacerebbe essere definito e lei trova sul vocabolario il suo contrario. Affare fatto?».
Affare fatto.
«Limitato».
Il contrario di limitato è eclettico.
«Eclettico mi piace, vada per eclettico».
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