Un sentimento riconoscibile 

Ma il fenomeno non è solo locale e riguarda un dato strutturale espresso da due bocchi di questioni, distinte, ma tra loro strettamente intrecciate: 

La prima: nel nostro Paese vi sono circa 5.500 centri con meno di 5 mila abitanti. Di questi circa 4 mila sono ubicati in aree interne, quelle segnate da difficoltà nei collegamenti e da mancanza di scuole, presìdi sanitari, uffici postali, esercizi commerciali, reti telematiche, biblioteche, impianti sportivi, spazi ricreativi, ovvero di tutto ciò che rende accettabile abitare in un luogo. 

In termini di superficie questi paesi coprono quasi il 60% del territorio nazionale e la loro popolazione ammonta a circa 13 milioni, quasi il 23 % del totale. 

La seconda: per restituire questi paesi a nuova vita non è sufficiente un’agricoltura di prossimità. La mappa della distribuzione della popolazione sul territorio se osservata nelle sue trasformazioni progressive nell’ultimo mezzo secolo propone sempre più macchie dense intercalate da territori abbandonati, spopolati, comunque vuoti, l’effetto è anche la formazione del nostro sguardo che perde progressivamente la visione di continuità di spazi organizzati, tutelati, salvaguardati per incrementare la porzione di spazi tornati selvaggi.

La geografia dell’insediamento come desertificazione e sovraffollamento che rende simile il paesaggio italiano al paesaggio umano delle aree metropolitane delle capitali dei paesi ex-coloniali o delle metropoli del sud del mondo. In mezzo, altro elemento che scompare, è la connessione resa possibile dalla distribuzione dei servizi. Si eclissa la continuità di territorio, si fa sempre più spazio un insediamento a macchia di leopardo che non vuol dire solo la desertificazione dei territori di mezzo, ma anche la trasformazione di quegli stessi territori in luoghi di esilio, in territori disconnessi e dunque candidabili a luoghi deposito di oggetti, di scorie, infine di “umani indesiderati”.  

In questo scenario Vito Teti comprende che è arrivato il momento. Si tratta di trasformare quella parola – “restanza” – in un sentimento riconoscibile. Per farlo quella parola non può essere un capitolo di un libro. Deve diventare un hashtag. 

Nominare un sentimento, descriverlo, vuol dire dargli cittadinanza nei percorsi che gli umani da sempre intraprendono quando devono dare forma a una cosa. Questo fa Vito Teti con Restanza (Einaudi)

 

Ecco aver coniato la parola «restanza» ha voluto dire, iniziare a prendere la misura delle cose. Non subire la realtà. Al contrario impegnarsi per essere, almeno in parte, costruttori, attori. Non pupazzi. Né, soprattutto, maschere.