Dino Fiorenza è uno dei bassisti più originali e riconoscibili nel panorama internazionale, perché usa un approccio tecnico e musicale al basso elettrico che supera ogni etichetta di genere e ogni definizione tradizionale dello strumento. Dotato di una padronanza totale delle tecniche sia classiche che moderne, è un vero fenomeno da vedere dal vivo: attraverso slap, tapping, sweep, l’uso espressivo del double-thumb e di tante altre modalità sonore, ha saputo dare una voce perentoria e creativa al suo basso, rendendolo capace di cantare, sostenere, ma soprattutto sorprendere. La sua lunga carriera e il suo talento immenso lo hanno portato a collaborare con grandi musicisti della scena rock e metal mondiale, tra cui ne ricordiamo alcuni particolarmente vicini al nostro mondo: Steve Vai, Paul Gilbert, Yngwie Malmsteen, Zakk Wylde e Billy Sheehan, con i quali ha condiviso palchi e progetti, per arrivare poi a consolidarsi come solista con i suoi due album It’s Important (2010) e Basstardy (2021). Parallelamente, Dino ha affiancato a quella artistica una intensa attività di insegnante, che svolge sia a livello locale che internazionale, ulteriormente nobilitata da pubblicazioni didattiche di riferimento, le quali comprendono metodi di grande successo fra gli appassionati, per esempio Tap Me Up, Extreme Slap Bass e Manuale di basso percussivo. Mi devo scusare, con lui e con voi, se non riporto qui tutto quello che ha fatto e sta facendo, ma credetemi, è davvero troppo. Il suo stile diretto, senza compromessi e spesso anche ironico riflette la sua idea di musica come ricerca continua, contaminazione, sperimentazione e invita tutti i suoi allievi alla massima libertà espressiva.
Ciao Dino, benvenuto nella rubrica di Metal Skunk dedicata ai bassisti italiani e piacere di conoscerti di persona.
Piacere mio. Sai che anche io vi conosco bene: leggevo Metal Shock, quando ancora si compravano le riviste in edicola e ho conservato tutti i numeri.
Ah quindi anche tu…?
Eh sì! Io nasco, sono e morirò come metallaro.
Cominciamo benissimo… In effetti lo si avverte da qualcosa nel tuo stile, perché tu puoi suonare un po’ quello che vuoi, ma quello spiritaccio delle origini, che ti fa andare a certe velocità, oppure che ti fa scegliere certe scale, alla fine lo si riconosce.
Sì, sì, assolutamente, è nel sangue! Se mi fanno gli esami del sangue, trovano del sangue nel ferro.
Molto bene! Senti, allora, veniamo alla domanda di apertura: sei d’accordo che il basso è lo strumento più importante dell’universo?
Assolutamente sì, altrimenti non avrei mai suonato questo strumento. Ora, scherzi a parte, sul discorso dell’importanza del basso, è chiaro che per me sia così, anche se ogni strumento ovviamente ha la sua importanza. Però a questo proposito voglio ricordare un episodio: una volta ero a suonare in Texas e un vecchietto, un musicista locale, mi disse che il basso è lo strumento più rognoso, perché, se è suonato bene, non si sente. Questo per valorizzare l’importanza dello strumento, perché i bassisti sono quei musicisti che più spesso si prestano al servizio degli altri, per cui a volte non li si sente e, quando il basso non lo senti, è perché è suonato veramente bene. Questo è il concetto di basso tradizionale; se invece parliamo di bassi virtuosi chiaramente è un’altra cosa. Comunque sia, se parliamo dei gruppi storici del rock e del metal, per esempio i Deep Purple o i Judas Priest, il basso sembra sempre inesistente, ma in realtà se non ci fosse, o comunque se non fosse suonato in quel modo, sarebbe un dramma. Prendi Billy Sheehan, che è un mio caro amico: quando ci siamo conosciuti gli ho detto che mi ero invaghito del suo modo virtuoso di suonare e gli ho chiesto quali fossero i suoi bassisti preferiti, e lui, senza pensarci tanto, mi rispose: “Pensa al bassista degli AC/DC [Cliff Williams]: lui è uno dei miei preferiti in assoluto, perché fa un lavoro che sembra scontato, ma in realtà non è affatto semplice”. Difatti, se togli quel ritmo serrato agli AC/DC il loro suono non esiste più. Stessa cosa per i Judas Priest: anche il lavoro di Ian Hill sembra un semplice raddoppio delle chitarre, ma in realtà svolge una funzione importantissima, che è facile dare per scontata, ma non è così.
Sì, sono d’accordo. Nella concezione classica del basso, è questa la funzione, cioè è una funzione armonica, è una funzione di accompagnamento, ritmica, però in effetti non è facile da capire.
No, assolutamente. Poi è chiaro che il basso si è evoluto, così come si è evoluta tutta la musica. Quando parliamo di gruppi storici, di quel periodo in cui è iniziato il nostro genere e anche tanti altri, la musica era quella, il bassista aveva quel ruolo, però poi nel corso degli anni, fortunatamente aggiungo io, i bassisti sono diventati più importanti. E ti dirò di più: secondo me l’evoluzione dei bassisti ha spinto anche l’evoluzione dei chitarristi, perché con i bassisti che ci sono in giro adesso un chitarrista o rompe il culo oppure rischia di passare inosservato. Quindi, ahimè, si sono dovuti evolvere anche loro, secondo me per colpa nostra…
C’è stata un’evoluzione molto rapida delle tecniche e, di conseguenza, anche della consapevolezza dei bassisti.
Certo, è così. Io lo vedo chiaramente nel mio lavoro: faccio un sacco di registrazioni, la maggioranza delle quali proprio per chitarristi, che sono tutti solisti virtuosi, shredder e così via. Posso dirti che, nel corso degli anni, ho notato un bel cambiamento: prima registravo per chitarristi che erano già ipervirtuosi, certo, ma alla fine si lavorava sempre su progressioni armoniche molto classiche, le solite scale pentatoniche, le scale modali, giri di Do… insomma, cose tradizionali, anche se ben suonate. Adesso invece non è più così: mi trovo a lavorare con musicisti che usano tonalità molto più complesse, tipo le scale simmetriche, la minore melodica e con progressioni armoniche che escono decisamente dai canoni del rock. Anche loro hanno cambiato il loro modo di ragionare e comporre, suonano in modo diverso. Non so se sia un’evoluzione o semplicemente un’altra direzione, ma di fatto questa è la musica di oggi.
Torniamo alle tue origini di bassista: prima di suonare il basso suonavi qualcos’altro?
No, nulla, nulla, assolutamente. Tutto è nato quando avevo sedici anni, nel lontano 1988, un mio cugino mi regalò Made in Japan dei Deep Purple. Io presi questo disco, lo misi sul piatto, però dal lato sbagliato, anziché dal lato A, misi il lato B, proprio dove iniziava Smoke on the Water. Subito dopo il famoso riff iniziale, quando inizia l’accompagnamento di basso, sono rimasto letteralmente folgorato. Dopo quell’intro, quel giro di basso, mi ha colpito talmente tanto che mi sono detto: “Io devo comprare questo…”, non sapevo nemmeno come si chiamasse. Pensavo solo: “Devo averlo, devo comprare e suonare questo strumento”. Non sapevo nemmeno che strumento fosse, infatti cominciai a chiedere in giro. Capito? E ancora oggi mi fa ridere questo fatto, che tutto è iniziato, per me, perché ho messo su un disco dal lato sbagliato, mentre se l’avessi messo nel lato giusto…
Chissà, magari adesso suonavi il piano…
O magari facevo il geometra al catasto, non so, ma è incredibile che io abbia deciso di fare il bassista in seguito a un errore. Quindi il primo bassista che ho ammirato è stato Roger Glover, perché è stato quello che mi ha fatto prendere in mano lo strumento. Poi, arrivò Steve Harris, prepotentemente, ma quello che mi ha cambiato proprio la vita è stato Billy Sheehan.
Che adesso è un tuo amico.
Sì, siamo diventati proprio amicissimi. Pensa che l’ho invitato al mio matrimonio. Per me è stato un sogno, perché io dall’essere un fan sfegatato, mi sono ritrovato ad averlo come amico ed è una splendida persona.
Parliamo un po’ del tuo stile, anzi, dei tuoi stili, perché tu usi tante tecniche avanzate, che possiamo definire anche estreme, però con un grande senso musicale. Quando hai capito che il basso poteva diventare uno strumento così espressivo?
È nato tutto in modo molto naturale e soprattutto in modo ignorante, perché quando io comprai il mio primo basso, che è sempre quel Vester rosso dell’88 che si può vedere nei miei video, ero completamente ignorante su tutto quello che era il mondo del basso elettrico. Io ero stato soltanto attratto da quel suono e quindi comprai lo strumento. Però poi, quando ascoltavo i dischi, in realtà non ero attratto dal basso, ma dagli altri strumenti, come la chitarra e le tastiere. Quindi immaginati che ascoltavo Malmsteen e cercavo di capire come fare a riprodurre la chitarra e la tastiera, perché non me ne fregava se fosse il basso o qualche altro strumento: a me interessava soltanto suonare quello che mi piaceva in quel momento, e quello che mi piaceva erano quei suoni e quei virtuosismi che facevano la chitarra o la tastiera. Al che ho cercato di riprodurre quelle cose sul basso e ho iniziato a suonare in quel modo là, che poi è diventata la base del mio stile. Ero completamente calato in questa foga di suonare e riprodurre quelle cose che sentivo, per cui mi sono preoccupato di avere una certa estensione, mi sono immaginato il tapping, che non ho imparato da nessuno, ma mi è nato in modo completamente naturale, perché nella mia epoca non c’era internet, quindi non è che potessi vedere chi suonasse a quel modo. Non c’erano neanche tanti videometodi per basso, allora. Quindi sono arrivato a usare quelle tecniche in modo molto spontaneo e naturale. Mi ha aiutato molto anche il fatto di avere una visione onnicomprensiva di quello che ascoltavo, perché non mi limitavo ad ascoltare il basso, ma tutti gli strumenti che mi piacevano e questo mi ha portato ad avere una concezione più personale, meno specialistica del mio strumento. Per cui, quando ho iniziato a suonare per altri o a incidere, mi capitava di pensare fuori dagli schemi del bassista classico. Ti faccio un esempio: se per un certo brano pensavo ci stesse bene un’arpa, mi mettevo a imitare l’arpa col mio basso, oppure al pianoforte, e quindi facevo il tapping, perché per l’obiettivo non era suonare il basso, ma riprodurre quello che mi piaceva, costi quel che costi. Non mi sono mai posto il problema se una cosa si potesse o meno suonare con il basso, perché semplicemente non lo sapevo, quindi per me tutto è nato così. Poi in seguito questa caratteristica è diventata, diciamo, il mio cavallo di battaglia. Non sono sicuramente il migliore, però ho trovato la mia voce, e questo è forse il mio punto di forza.
È un pensiero molto originale, questo: il basso per te è un punto di partenza, per arrivare a esprimere altre cose. Tu non ti sei posto dei limiti, ma fin da subito degli obiettivi sonori
Sì, sì, sì, immediatamente, perché ti ripeto, non era una cosa che io ho meditato, non mi sono immedesimato nella parte del bassista, di suonare il basso, anche perché non avevo idea di cosa volesse dire, sapevo solo che mi piaceva quello strumento, per cui l’ho preso in mano e mi sono messo a studiare e a suonare come mi sentivo. Paradossalmente, questa ignoranza di non pensare di avere un limite, mi ha permesso di non averne. Partendo da questa riflessione, che faccio adesso col senno di poi, io consiglio e incoraggio tutti i miei allievi a fare quello che vogliono, quello che più si sentono, cercando di non influenzarli mai. Non dico mai loro: “Non puoi fare questo”, ovvero non propongo mai dei limiti, ma cerco di dare loro un punto di vista più ampio possibile, a trecentosessanta gradi, in modo che capiscano cosa possono fare e trovino la loro strada. Il senso del mio lavoro è incoraggiarli a sviluppare le loro idee, le loro tecniche e tutto quello che ne può derivare. Non sono il classico insegnante che magari cerca di creare dei cloni di se stesso.
Stai anticipando una domanda che ti volevo fare. Secondo te un bassista che deve iniziare o comunque che si vuole perfezionare, cosa dovrebbe fare? Qual è la cosa più importante per un giovane bassista?
In questo caso posso darti solo la mia opinione. Io dico che l’errore più comune che tutti i bassisti fanno, o in genere tutti i musicisti, è quello di affidarsi troppo alla visibilità su internet. Le possibilità che ci offre la rete sono fantastiche, ci stanno aiutando tantissimo, ma al tempo stesso ci stanno distruggendo. Ci sono molti, troppi musicisti che su internet sono bestiali da vedere, sembra che facciano cose mostruose, ma il dramma è che oggi si tende a copiare, più che a imparare. Per farti un esempio, mi ricordo che una volta stavo facendo un seminario in Nord Europa e un ragazzo mi ha detto se poteva suonare con me. Così, l’ho invitato e l’ho fatto suonare: era un bassista disumano, credimi Stefano, disumano, faceva cose incredibili sullo strumento. Ma a un certo punto gli ho detto: “Senti, mi suoni una scala di Do sulla prima parte del manico?”. Silenzio assoluto… Quindi, vedi, lui andava sì alla velocità della luce, lasciava tutti ammutoliti, però, in concreto, non aveva idea di quello che stesse facendo, perché aveva solo imparato delle cose a memoria, senza capirle. Quindi il mio concetto qual è? Oggi, musicalmente, se tu vuoi ottenere qualcosa, devi essere personale, ovvero, devi avere qualcosa di tuo da dire e questo è vero sia nella musica che nella vita. Se non sei una persona che ha un pensiero proprio, non avrai personalità, non avrai carisma, quindi difficilmente farai cose interessanti, per te e per gli altri e non raggiungerai mai determinati obiettivi, perché facendo così non te li poni. Pensi solo a fare quello che fanno già altri, magari arriverai a farlo anche meglio, ma questo non porta a nulla. Un errore che si deve evitare è mettersi a studiare le cose senza sapere quello che si sta facendo. Io vedo un sacco di ragazzi che vogliono suonare dei brani di Victor Wooten, di Sheehan, di Michael Manring e, credimi, alcuni li suonano anche meglio degli originali, ma il punto è che stanno suonando cose di altri. Questo è un esercizio che va bene per imparare la tecnica, che è importantissima, ma l’obiettivo non può essere solo quello di ottenere la visualizzazione su YouTube. Io ai musicisti dico: mettetevi a studiare, impegnatevi, miglioratevi, ma fatelo e basta, non mettetevi in vetrina inutilmente. Se volete fare questo nella vita, fatelo e basta e, soprattutto, create la vostra voce. Avete imparato una nuova lingua? Benissimo, adesso esprimete il vostro pensiero. Io non so se parlo giustamente o meno, dopotutto siamo in un’epoca in cui tutto è diverso da quando ho iniziato io, però vedo un problema generale che si riflette anche sulla musica e sui musicisti che rischiano di perdere il vero senso delle cose. Siate personali!
Visto che stiamo parlando di allievi e di insegnamento, è facile o difficile fare l’insegnante?
Allora, dipende molto dall’insegnante. Io ho sempre avuto la passione per l’insegnamento, mi ci sono ritrovato e mi è sempre piaciuto. Ora, sai qual è il problema, Stefano? È che oggi tanti insegnano solo per guadagnare. E per carità, ci sta: è un lavoro, ma se non hai passione, non vai lontano e non permetti neanche ai tuoi allievi di crescere. Io adoro insegnare e, soprattutto, adoro condividere la mia conoscenza. Pensa che ho scritto dieci libri didattici. Scrivere un metodo, credimi, è una gran fatica, perché non basta buttare giù gli esercizi: devi metterti lì e costruire un qualcosa che abbia un filo logico, che funzioni davvero per uno che si mette lì a studiare, per cui devi pensare in modo chiaro, completo, come se avessi uno studente davanti, che però non può farti domande, quindi ogni parola, ogni esempio, ogni esercizio dev’essere pensato per essere il più possibile chiaro, utile e propedeutico. È questa la vera difficoltà. Insegnare, invece, per me non è difficile, anzi, mi viene naturale, perché mi piace da morire. Ho allievi in tutto il mondo, sia in presenza che online: dagli Stati Uniti all’Asia, dal Nord Europa al Sud Italia. Secondo me i ragazzi si trovano bene anche perché percepiscono che ci metto il cuore. Ho un’empatia con loro che nasce proprio dalla mia passione per la didattica. Io voglio insegnare tutto quello che so, senza segreti e senza limiti. A volte restano stupiti, perché si aspettano che io parta subito con tecniche avanzate, tapping, slap, cose così. E invece no: io parto sempre dal basso più tradizionale, perché il punto a cui sono arrivato oggi non è un punto di partenza, è un punto di arrivo. Quando dico: “Ascoltati Paul McCartney, ascolta i Beatles”, magari inizialmente rimangono spiazzati, ma poi, studiando, nel tempo capiscono perché li faccio partire da lì. Per me la storia dello strumento è fondamentale: se non sai da dove arriva uno stile o una tecnica, non puoi davvero capirla. Vale per tutto, anche nel lavoro: conoscere il passato serve per vivere meglio il presente e costruire il futuro. E sai qual è la cosa più bella? Quando vedo che i ragazzi crescono, migliorano e raggiungono i loro traguardi. Quella è la vera soddisfazione. E anche la miglior pubblicità. Non servono volantini o slogan: i migliori testimonial sono gli allievi che ho formato, che suonano, e poi magari dicono: “Io ho studiato con Dino Fiorenza”. Ecco, per me è questo che conta davvero.
I tuoi allievi di solito chi sono?
Guarda, davvero di tutto, dal direttore di banca al figlio del demonio invasato con lo shredding più brutale. Non c’è una categoria precisa: tutte le età, tutti i livelli, tutti i generi. Alcuni vengono da me per imparare esattamente il contrario di quello che ti aspetteresti guardando la mia immagine: c’è chi vuole prepararsi per l’ammissione al conservatorio, ad esempio. Magari uno pensa: “Ma come, tu fai slap, tapping, suoni metal?”. È vero, ma faccio anche armonia, solfeggio, lettura e preparazione classica. È tutto parte del mio lavoro. Il punto è che se suoni roba tecnica, veloce, piena di articolazioni complesse, non puoi farlo senza sapere cosa stai facendo, come abbiamo già detto prima. Se non hai padronanza teorica e controllo sullo strumento, tutta quella velocità non serve a niente. Anzi, spesso è proprio chi studia le cose più estreme a dover avere più consapevolezza teorica. Poi, negli ultimi anni ho notato che l’età media degli allievi si è un po’ alzata. Prima c’erano più ragazzini che volevano imparare, adesso molti giovani sono più attratti da altri mondi, il classico “musicista da cameretta”, che si fa tutto da solo col computer e il MIDI. Quindi i giovanissimi sono un po’ diminuiti, ma continuo a lavorare con persone molto motivate, diversissime tra loro e per me è sempre stimolante.
La mia vecchia esperienza è che tendenzialmente al basso arrivano ragazzi un po’ più grandi, perché è uno strumento poco conosciuto e poco appariscente.
La parola magica è quella: appariscente. Quando sei più piccolino sei attratto dagli strumenti che si sentono più facilmente, come la chitarra, la voce, o la batteria. Il basso è uno strumento che colpisce quando si ha un po’ più di consapevolezza. Quando vengono da me i ragazzini a studiare il basso, gli chiedo: “Ma perché il basso? Come sei arrivato al basso?”. La risposta è che spesso si tratta di bambini che hanno una cultura musicale un po’ più elevata, o magari perché hanno qualche genitore o qualche parente che gli ha fatto fare determinati ascolti. Ci sono dei buoni motivi per suonare il basso a una tenere età, anche se non è così scontato, però me ne capitano, in certi momenti ne ho avuti anche parecchi, solo che nell’ultimo periodo, come ti dicevo, non è più come prima: la fascia di età si è alzata notevolmente, ma mi aspetto che poi le cose cambieranno di nuovo.
In questo tipo di scenario, dove è tutto smaterializzato e c’è una comunicazione costante, oggi il musicista che ruolo ha, secondo te?
Guarda, io penso che oggi il ruolo del musicista stia un po’ perdendo centralità, perché ormai c’è di tutto, lo sai anche tu: ologrammi che suonano al posto tuo, intelligenza artificiale che compone brani… insomma, ci siamo capiti. Però, nonostante tutto, sono convinto che il vero musicista, quello che suona davvero, non morirà mai. Ti faccio un esempio concreto: quando lavori su produzioni in casa tua, magari per social o autoproduzioni veloci, puoi anche fare tutto da solo, con le macchine e i software: registri, programmi, sistemi, fine. Quando invece devi fare un disco serio, importante, che deve suonare davvero con delle belle idee e dei suoni ragionati, che devono “spaccare”, beh… lì serve il musicista. Proprio in questi giorni sto registrando un disco per un cantautore che ha composto tutto con l’intelligenza artificiale e adesso vuole rifare i brani con strumenti veri. Un delirio. I file erano completamente sballati: l’algoritmo dell’intelligenza artificiale non calcola praticamente il Bpm, siamo diventati pazzi e abbiamo dovuto riparare tutto quanto, perché era tutto fatto male, malissimo. Abbiamo dovuto riscrivere e sistemare tutto, è stato un casino. Inoltre, è brutto pensare che un brano sia stato concepito, creato e composto non da un’emozione, ma da un computer, anzi da un algoritmo che rende tutto statico e asettico. Per rimediare a questa sgradevole sensazione, bisogna chiamare il musicista reale, anzi i musicisti. Ci vorrà tempo, ma si ritornerà a suonare veramente.
Eh sì, diciamo che adesso c’è un po’ una sbornia generale per queste nuove tecnologie, tutti provano a usarle ed è anche naturale curiosità. Però la musica è un’arte e non può nascere dalla statistica o dall’analisi dei dati, perché è questo che fanno le intelligenze artificiali di oggi.
Certo, me ne sono accorto, Stefano! Per cui alla fine il musicista serve sempre, a meno che non si voglia fare un disco senza nessuna intenzione artistica, senza velleità, allora l’intelligenza artificiale mette insieme dei brani, fa anche tutto il resto, ma la contropartita è che ci si ritrova sempre con le stesse minchiate.
Visto che abbiamo parlato di creatività, parliamo dei tuoi lavori più famosi, come It’s Important o Basstardy, dove il basso è protagonista, anche a livello compositivo. Come nasce una tua composizione? Da quali idee parti?
Allora, guarda… di solito tutto parte da un’idea che mi può venire in qualunque momento, spesso viene mentre già suono, magari anche in modo totalmente casuale. A volte mentre ho il basso in mano mentre guardo I Simpsons, oppure mentre sto facendo un esercizio di tecnica. Paradossalmente, molte delle mie composizioni partono proprio da lì, dal lato tecnico. Ad esempio, un pezzo come Slap Machine, con quel groove di slap molto tirato, nasce da un esercizio che stavo studiando in quel momento. Capita che magari provo una nuova tecnica, tipo il double-thumb o il tapping a più dita, poi trovo un passaggio che mi suona bene e da lì comincio a costruirci intorno. Succede così: un’idea tecnica mi colpisce, la trovo musicalmente interessante e da quella frase iniziale immagino già un brano intero. Quella frase diventa il riff portante e il resto viene naturale: sviluppo, arrangio, ci suono sopra, mi lascio guidare. Poi ovviamente metto in campo anche tutta la parte teorica: conoscenze armoniche, modulazioni, soluzioni ritmiche… tutto serve a dare struttura e profondità. Un altro esempio è il brano Seven, che è quello più in stile fusion del mio disco It’s Important, il quale è nato invece da uno studio armonico. In quel caso, sono partito da un riff di double-thumb, ma volevo trattarlo in modo più sofisticato, non come dal classico brano rock col basso in evidenza. Ho lavorato sul modo minore melodico, che io uso tantissimo, e ho pensato alle risolvenze sulle dominanti. Sono idee fuori dai canoni del rock, che però fanno parte della fusion. Per tornare al discorso di prima, i chitarristi contemporanei, tipo Marco Sfogli, per fare un nome, sono veri compositori, non pensano solo al riff classico. La nuova generazione ragiona già così: armonia più avanzata, struttura complessa, approccio compositivo, quindi è naturale che anche io mi muova in quella direzione. In fondo, tutto parte da un’idea di basso che mi piace: un groove, un riff, una progressione, che poi cerco di sviluppare e portarla a un livello superiore. Quando ho trovato una cosa che può funzionare, poi penso a cambiarla, a cosa succede se inserisco una progressione diversa, oppure a usare qualcosa di nuovo che ho appena studiato e voglio provare a inserirla in un brano mio, per vedere come suona nel mio contesto. Quindi sì, direi che gli ingredienti fondamentali, per me, sono: curiosità, tecnica e sperimentazione.
Parlando sempre di composizione, nel nostro mondo di rockettari, metallari e amici dei generi estremi, ci sono aperture a livello compositivo?
Sì, sì, c’è, assolutamente sì, fin dai tempi dei Dream Theater, Watchtower, Fates Warning. Già ascoltando questi primi esempi capisci quanto si sia evoluta la nostra musica. Ha preso strade diverse. Ti porto come esempio il mio disco Basstardy, dove ci sono dei brani dalla struttura semplice, perché anche quello è molto bello, ovvero la semplicità, anzi è la cosa più bella in assoluto. Tuttavia, andando a utilizzare quelle tecniche molto virtuose, che hanno bisogno di svilupparsi Ion un certo discorso musicale, è chiaro che attorno a strutture semplici ci costruisci cose che non si limitano alla struttura canzone di strofa, ritornello e special. O meglio, in realtà c’è la forma canzone, ma viene ampliata in strutture più complesse: per poter esprimere quello che si vuole dire a volte si arriva a forme a volte anche contorte.
Come vedi il rapporto fra i vari generi musicali? Ci sono più barriere o più punti di contatto, oggi?
Io vedo tanti punti di contatto e nessuna barriera. Anzi, ti dirò: io sul mio canale ho creato un siparietto dove prendo in giro il jazz, ma ovviamente è solo per ridere. In realtà io credo fortemente che più ascolti e studi musica che non è “la tua”, più impari a suonare bene quella che è davvero la tua. Mi spiego meglio: se ascolti solo gli Iron Maiden, suonerai sempre un po’ come gli Iron Maiden, magari lo farai anche bene, ma resterai lì, perché i tuoi riferimenti saranno sempre gli stessi. È un po’ come negli altri ambiti della cultura: più leggi, più riesci a esprimerti meglio, perché hai più idee, più parole, più modi di vedere le cose. Oppure più viaggi, più posti nuovi visiti, più cose conosci e più la tua mente si apre. Ecco, io la musica la vedo così. Quindi, se posso dare un consiglio ai ragazzi, è questo: non abbiate pregiudizi musicali. Ascoltate di tutto, anche cose lontane dal vostro genere. Perché tutto quello che è diverso da ciò che suonate, in realtà vi aiuta a suonare meglio quello che amate davvero.
Torniamo invece un attimo alle tue collaborazioni, alle quali per la verità si fa molta fatica a star dietro, perché sono migliaia… prendiamo solo i primi artisti che mi vengono in mente, per esempio Steve Vai, Jennifer Batten, Yngwie Malmsteen, ma anche altri tipi di artisti, per esempio, Alessandro Benvenuti. Come ci si adatta a delle personalità così diverse?
Guarda, in realtà musicalmente non ti devi adattare più di tanto, perché se ti chiamano per suonare con certi artisti, un motivo c’è: vuol dire che tu hai quel linguaggio, quella preparazione, quella personalità musicale che cercano. Il vero adattamento, secondo me, è a livello umano. Devi imparare a capire le persone con cui lavori, specialmente certi personaggi, perché ognuno ha il suo modo di ragionare, il suo carattere. Il primo tra tutti fra quelli che hai citato, ovviamente, è Malmsteen (ride), ma in realtà ciascuno ha le sue peculiarità. Io lo dico sempre: la parte più difficile della tournée non è suonare, ma convivere con le persone con cui suoni, perché non si tratta solo di quell’ora o due sul palco: ci passi giorni, settimane, a volte mesi insieme. E lì viene fuori tutto. Ti può capitare quello che fuma dove non si dovrebbe, quello che ha sempre pensieri negativi, quello troppo invadente… insomma, ci vuole molta tolleranza. Per cui ripeto: la tournée non sono solo le due ore di concerto, ma sono le altre ventidue che nessuno vede: alberghi, viaggi, pranzi, cene, attese, aeroporti, tour bus. Vivere tutto questo con altre persone, spesso sconosciute, può essere difficile. A volte trovi fratelli, persone con cui ti leghi per la vita, mentre altre volte trovi qualcuno che riesce a farti passare la voglia di essere lì. Tuttavia, fa parte del gioco ed ecco perché dico sempre: la vera sfida non è musicale, è umana.
Vuoi ricordare un’esperienza particolarmente positiva o costruttiva che hai avuto recentemente?
Le esperienze positive che ho vissuto in realtà sono tantissime, perché poi quando ti trovi a suonare con grandi musicisti, di base è sempre un’esperienza positiva. Un’esperienza particolarmente bella che ricordo è quando ho suonato con Paul Gilbert, perché ho avvertito che lui ha capito il mio modo di suonare e poi è stato lui a chiamarmi ripetutamente alle sfide solistiche fra basso e chitarra che abbiamo fatto. In quelle occasioni, si vedeva proprio che si divertiva e aveva voglia di fare questo spettacolo con me, il classico duetto, o “duello” fra basso e chitarra. Quindi questo mi ha fatto stare molto bene, perché lui era Paul Gilbert, capisci? Avrebbe potuto semplicemente chiedermi di accompagnarlo per fare il suo spettacolo, invece no: mi ha voluto proprio accanto a lui e mi ha messo sul suo stesso piano. Per me è stato bellissimo partecipare a questi incontri e ricordo anche qualche recensione positiva in cui si diceva che avevo retto bene la sfida.
Certo, ricordo bene, divertentissimo e anche entusiasmante da vedere. A proposito dov’è che possiamo vederti dal vivo? Hai qualche programma nel breve?
Sì, adesso comincia la tournée con il Vivaldi Metal Project, poi ho da fare alcune fiere per Mark Bass, al Music China, al Namm negli USA, però sono tutti eventi da confermare. Nel breve periodo rimango a casa, a Catania e mi godo la famiglia per il momento, anche se poi in realtà non smetto mai di lavorare, perché anche qui intorno ci sono sempre lezioni, registrazioni, eccetera, eccetera.
Avrai qualche un nuovo lavoro in studio?
Sì, sto componendo dei brani cantati, quindi in programma ho, per la prima volta, un disco cantato. Finora ho fatto solo due dischi strumentali, ora sto pensando a dei brani cantati, un’altra tipologia, però ci sta, perché all’inizio mi volevo presentare come bassista, quindi il disco strumentale è d’obbligo, mentre adesso sul terzo aggiungerò la voce.
Quando potrebbe uscire? Lo sai già?
Ormai si parla dell’anno prossimo, perché stiamo facendo stiamo iniziando a registrare adesso. Abbiamo finito il primo brano e stiamo registrando il secondo, per cui siamo proprio all’inizio. Però sarà una bella sorpresa.
Un’ultima cosa che vuoi aggiungere?
Si, per terminare, l’unica cosa che posso dire, sempre riprendendo il filo del discorso generale, è un consiglio che voglio dare a tutti. Tutti quelli che vogliono iniziare a suonare uno strumento, ma anche quelli che vogliono costruire qualcosa di loro, devono cercare di essere degli attori nel palcoscenico della vita, non semplice comparse. Questo è quello che vorrei dire a tutti.
In un modo o nell’altro lo sarete attori, ma bisogna cercare di essere protagonisti in quello che si fa.
Ci salutiamo con quest’ultimo consiglio di Dino Fiorenza il quale, attraverso la sua arte, ci spiega cosa vuol dire essere un musicista: oltre alla tecnica e al virtuosismo, che devono avere una loro parte, quel che conta maggiormente sono la visione, la libertà di pensiero e la voglia di seguire sempre la propria passione. (Stefano Mazza)