Alla fine del sermone, l’annuncio dei consueti appuntamenti settimanali: «La catechesi sulle lettere di San Giovanni, con gli adulti dei gruppi san Giuseppe e sant’Anna, sono confermati per giovedì. Bambini e adolescenti troveranno il materiale per scrivere e per la meditazione. Manderò tutto nel gruppo whatsapp». Evacuazione forzata permettendo.
Il miracolo di Gaza è l’unica parrocchia al mondo dove “casa e chiesa” vuol dire che i parrocchiani ci vivono giorno e notte. Non per scelta. Padre Gabriel ogni mattina non fa mancare la sua meditazione. E se non fosse per i droni in sottofondo, la sua voce e le sue espressioni sembrerebbero quelle di un prevosto indaffarato e ironico, come certi preti sempre di corsa tra una benedizione e un’opera di bene. Ma questa è Gaza, e tra noi e padre Gabriel ci sono cinque chilometri di macerie in linea d’aria, e un muro di cemento armato che sembra niente al cospetto della muraglia che non si vede, costruita sopra l’insanabile faglia tra il mondo di qua, nell’Israele colpito dalla mattanza di Hamas del 2023, e quello che secondo i piani di Tel Aviv entro il prossimo 7 ottobre dovrà non vedere anima viva, a parte uomini con il fucile in spalla.
Le immagini che padre Gabriel fa giungere fuori da Gaza raccontano lo scandalo dei costruttori di pace. «Come dice Geremia – comincia il parroco nella sua meditazione del mattino -, è bene aspettare in silenzio la redenzione di Dio. Noi continuiamo. Con la fede, che ci fa stare meglio grazie a Dio, grazie alla sua grazia, anche se sembra un gioco di parole», dice nel dolce castigliano rioplatense, lo spagnolo di Buenos Aires che ad ascoltarlo ad occhi chiusi trasporta lontano dal fragore della guerra, e lascia desiderare altri suoni e altre rive. «Nosotros seguimos», un impegno e una promessa dove non sembra esserci scampo: «Noi continuiamo. Abbiamo il tesoro più grande. E abbiamo la Croce, la Croce che sta attraversando tutto questo popolo. Nella città di Gaza e in tutta la Striscia di Gaza».
Per quel che succede sopra e intorno, per i feriti e i morti di questi anni, per i danneggiamenti subiti dalla chiesa e dagli spazi parrocchiali dove sopravvivono più di 450 palestinesi che lì hanno trovato rifugio, neanche una parola di astio. Nessuno può sapere oggi che cosa accadrà a loro domani. «La situazione è terribile, le notizie sono pessime. Chiediamo al Signore che sia fatta la sua volontà – si interroga senza mai accigliarsi -. E se è sua volontà che finisca al più presto questa parte di calvario per la popolazione di questa parte della Terra Santa che si trova a Gaza».
Tra i volti dei santi e le tappe della Via Crucis nelle nicchie a mezz’aria delle navate laterali, sanno che questa è «una guerra che influenzerà e sta già influenzando tutta la regione. Pertanto, quanto prima finirà, sarà un bene per tutti. Ogni giorno di guerra in più vuol dire più morti, più distruzione, più case distrutte», che per il parroco si traduce in «più bambini senza genitori, più genitori senza figli. E più famiglie senza vedere i propri cari, privati della libertà, gli ostaggi che continuano a essere rinchiusi». E’ forse l’unico riparo di Gaza dove c’è posto per il dolore di tutti, di israeliani e palestinesi. Perché quando a parlare sono i cannoni, non c’è molto spazio per la paura degli altri. «Le difficoltà non mancano qui con i 450 e più rifugiati», riconosce il parroco. Per giorni gli aiuti sono un miraggio. Mentre la temperatura sale sopra i 30 e non scende sotto i 28 e i 33. E quando l’acqua è un bene prezioso e l’elettricità non può essere sprecata per i climatizzatori, il sole che dardeggia non è una benedizione. Ma è sempre meglio delle notti nell’abisso scuro, appena più fresche, ma incendiate dai bagliori delle esplosioni. «Chiediamo al Signore – è l’invocazione del sacerdote – che tocchi il cuore di tutti coloro che hanno il dovere di prendere decisioni giuste. Di rispettare la legge naturale, la legge umanitaria». Che poi sono il diritto alla vita, alla libertà, ai propri averi, alla giustizia. Il dovere di non nuocere. Ma la cosa che più conta, la più importante adesso, «è che finisca tutto questo, perché un giorno in più di guerra accresce i danni oggi e li aumenta per le generazioni future».
Ci sarebbe da non dire nient’altro, a vedere le foto dei bambini del catechismo, tra i banchi della chiesa della Sacra Famiglia, con gli adulti che ascoltano padre Gabriel insieme agli altri sacerdoti e alle suore. Non spostano lo sguardo se non quando il tiro si fa molto ravvicinato. «Migliaia di bambini uccisi dall’inizio della guerra. Che sembra non saziarsi, senza mettere un freno», diceva ieri mattina il missionario argentino fissando il telefono da cui registra i messaggi video. «Come ho detto più volte, sono convinto che non siamo eroi, siamo persone convinte di avere una missione, la missione che ci ha chiesto e ci chiede Gesù Cristo attraverso nostra madre, la Chiesa, è quella di stare qui», ed è una delle cose su cui la piccola comunità di religiosi non è disposta a negoziare: «Stiamo cercando di edificare la pace, di essere costruttori di pace». Perché in mezzo al chiasso delle parole e alle voci spente dalle armi, qualcuno deve trovare la forza di pensare al futuro.