Come si fa a vivere bene in città? Una volta si parlava di metrature, orientamento, vicinato e mezzi pubblici. Oggi la risposta sta (anche) in una formula a metà strada tra dogma ecologico e regola da manuale matematico: 3-30-300. Si tratta di un un principio molto serio quanto semplice per ripensare le nostre città. L’ha inventato il professor Cecil Konijnendijk, esperto di forestazione urbana e cultore del verde applicato alla città. Il suo paper scientifico (non un post Instagram) lo spiega nero su bianco, con toni pacati e rigore nordico: se vogliamo che le città siano più sane, più belle, più vivibili, allora servono tre cose, sempre e dovunque: 3 alberi visibili da casa, il 30% di copertura arborea nel quartiere e un parco a non più di 300 metri. Un trittico perfetto che più che urbanistica sembra una cartolina da una città del Nord Europa ma parrebbe funzionare e ora, tra una planimetria e l’altra, anche gli architetti iniziano a prenderla sul serio.
3: affacciarsi alla finestra e contare
La prima cifra è chiara: “ogni cittadino dovrebbe poter vedere almeno tre alberi (di dimensioni decenti) dalla propria casa”. Lo scrive proprio così, con un tono che non ammette repliche. E non si parla di piantine sul balcone o dell’edera del vicino al piano di sopra: qui si intende verde vero, tronco, rami e stagionalità comprese. Un rapporto visivo con la natura che non è un vezzo poetico, ma un bisogno psicologico. Secondo le ricerche, vedere verde riduce lo stress, aumenta la creatività, migliora l’umore. Meglio di una lampada al sale.
E se la vista dà su un muro cieco o su un parcheggio, poco male: si può sempre investire su un binocolo e orientarlo verso il Bosco Verticale, dove a Milano gli alberi non crescono più in orizzontale ma puntano al cielo con ambizione da grattacielo. Il giardino pensile si fa skyline, e ogni terrazza è un ecosistema verticale. Konijnendijk magari non l’aveva pensata così, ma di necessità virtù.
30: il verde non è solo in centro
La seconda cifra è 30: percentuale minima di copertura arborea nel proprio quartiere. Non solo in città, dove tra parchi recintati, spartitraffico e tetti verdi inaccessibili, i numeri ci gratificano, ma sotto casa, nella vita reale. Qui, il 30% di ombra e chiome è quello che serve per abbassare la temperatura, respirare meglio.
L’OMS lo dice chiaro: più alberi, meno malattie, meno isolamento sociale, più interazioni tra persone e panchine, meno climatizzatori come se non ci fosse un domani. In Australia , le ricerche di Thomas Astell-Burt mostrano che il 30% è la soglia magica per iniziare a stare meglio. E le città più ambiziose (Seattle, Barcellona, Vancouver) si sono già messe all’opera.
300: il verde sotto casa non è un privilegio
Terzo punto: un parco a massimo 300 metri da casa. Tradotto: cinque minuti a piedi, non di più. Non deve essere per forza Central Park, bastano del verde, qualche seduta, un po’ d’ombra, un posto per giocare o leggere un libro senza dover necessariamente impegnarsi nell’acquisto di un caffè. Il verde urbano dev’essere democratico, accessibile, di qualità. Non un giardino chiuso con orari e biglietto, ma una continuità verde che fa parte del quotidiano.
Non sempre è facile nei centri storici, nei quartieri densi, tra edifici anni ‘50 e box in lamiera. Ma anche lì si può fare: corridoi verdi, viali alberati, piazze con alberature vere e non in vaso. Ogni spazio può essere un frammento di paesaggio urbano.
Dall’urbanistica al diritto al verde
La regola 3-30-300 funziona perché è semplice, comunicabile, verificabile. Non è un piano quinquennale, né una visione utopica, ma un criterio che può diventare standard progettuale. Architetti, urbanisti, amministratori pubblici e privati possono applicarla subito. È una metrica concreta per costruire città più giuste, sane, bioclimatiche, dove il verde non è il residuo di ciò che avanza, ma l’ossatura di ciò che resta. E, ammettiamolo: non c’è niente di più contemporaneo che progettare tenendo conto degli alberi. Non come ornamento, ma come elemento strutturale.
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Sono nato a Napoli, non parlo in terza persona e non curo cose, oggetti, persone o animali. Ho studiato architettura tra il Politecnico di Milano e l’ENSA Paris-Belleville per poi laurearmi in Architettura delle Costruzioni. Mi sono occupato di allestimenti seguendo i progetti di NENDO, scrivo di grandi architetture e sto completando un dottorando in Composizione allo IUAV di Venezia. Nonostante questo, tutto regolare.