LOCARNO – Nella selezione dei film al festival di Locarno, uno degli appuntamenti cinematografici più importanti d’Europa, c’è un film che si chiama semplicemente “She”, lei. È un documentario – coprodotto, fra gli altri, da Luce Cinecittà – che mostra una storia abnorme, quasi disumana e nascosta. Racconta una fabbrica enorme, in Vietnam, un polo industriale dell’elettronica in cui vivono e lavorano 100.000 persone, quasi tutte donne. Donne sfruttate. Ma dire “sfruttate” è ancora poco. Donne le cui vite vengono risucchiate via. Turni di 12 ore, sia di giorno che di notte, una ferrea disciplina, controlli capillari. Per queste donne non c’è quasi vita al di fuori della fabbrica.

Il tempo di queste donne viene sacrificato sull’altare di un po’ di soldi. In un sistema basato sullo sfruttamento intensivo delle vite, così come si sfruttano gli animali negli allevamenti intensivi. Il racconto del film si snoda attraverso testimonianze anonime di operaie che si sottopongono a questo immane sacrificio per mandare un po’ di soldi a casa.

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“She” è un racconto corale, in cui le donne si raccontano, protette dall’anonimato, e in cui le operaie mettono in scena per 12 ore ciò che accade quotidianamente nei turni di 12 ore in fabbrica. L’International Labour Organisation patrocina il film e la campagna di impatto sociale ad esso legata.

Sembra, in certi tratti, di vedere un film di fantascienza. E invece è il presente, un presente in cui i robot siamo noi. O meglio, sono quelle persone che lavorano lì. “She è un film sulla resistenza nascosta, sul diritto di queste persone a esistere, non solo come forza lavoro”, dice Parsifal Reparato, che ha diretto il film. “Ma è anche una proposta: quella che le operaie mettono in scena può essere l’inizio di una nuova storia”. Intanto, però, c’è un modello di progresso che non è sostenibile per nessun corpo umano, un modello che viene seguito, in una fabbrica che sembra il riassunto di tutto ciò che viene fatto in nome del profitto.