È spettacolare e carico di verve il più recente libro di Shalom Auslander, cresciuto negli Usa in una comunità ebrea ultraortodossa. In “Feh – che schifo la vita” esorcizza la narrazione che da sempre, a partire dai testi biblici, viene inculcata agli uomini: la loro sostanziale malvagità. Tra una crisi di mezza età e ricordi di infanzia, tra droghe e alcool, la ricerca della bontà propria e altrui…
In grande spolvero. Con tanti degli argomenti di sempre, ma con rinnovato spirito, con ironia cristallina, con verve intatta. Il ritorno in libreria di Shalom Auslander – classe 1970, nato a New York, cresciuto in una comunità ebraica ultraortodossa – è semplicemente uno spettacolo, e si collega al suo libro di debutto, Il lamento del prepuzio, che era un memoir sui generis, come lo è anche il suo titolo più recente, Feh – che schifo la vita (368 pagine, 24 euro), pubblicato come sempre da Guanda, tradotto con cura da Katia Bagnoli. Nel volume d’esordio il protagonista era decisamente un giovane, adesso fa i conti con la mezza età e con una esilarante… disperazione. L’umorismo di Shalom Auslander è bizzarro e nero, nel giro di poche pagine, a volte di poche righe, c’è sia da ridere che da piangere. L’infanzia – durante cui s’accende gran parte delle cose che illumineranno l’esistenza nel bene e nel male – e il rapporto con la religione e con le sacre scritture tornano prepotentemente a rimbombare fra i pensieri della voce narrante di Auslander.
Un Dio vendicativo e prepotente
Il punto di partenza sta proprio nell’espressione yiddish “feh”, che ha a che fare con la ripugnanza e il disgusto, riferito in particolare all’umanità, alla sua presenza insignificante nel mondo, quando non dannosa, alla cattiveria degli uomini, pericolosi, egoisti, peccatori, narcisisti. Non è forse questo il frustrante e disumanizzante messaggio dei testi biblici? Non erano ladri e assassini il primo uomo e la prima donna sulla terra, e i loro figli? E forse non c’entra solo la religione, anche certi sguardi atei o comunque laici, come la visione capitalista del mondo e anche la politica odierna danno forza a questo punto di vista. Allora per scardinare questa narrazione servono i ferri del mestiere di questo scrittore che meriterebbe una definitiva esplosione anche in Italia, servono quantità industriali di umorismo per dar vita a risate spietate. Niente di più semplice per un autore cresciuto da lettore a pane e Vonnegut, a pane e Swift, e a pane e Kafka. Mentre ragiona su un Dio che c’è, eccome, e che sostanzialmente è vendicativo e prepotente, Auslander racconta di come abbia corteggiato la morte, con pensieri e gesti suicidi, di come sia finito preda delle droghe e dell’alcol. E, paradossalmente, sono passaggi sulla strada della comprensione della bontà, di ciò che di buono c’è in se stesso e nel genere umano.
La famiglia e… l’angelo Gabriele
Per svolgere al meglio il compito sovversivo e divertente che si è dato, Auslander setaccia le letture di Antico e Nuovo Testamento, chiama in causa l’angelo Gabriele, racconta del padre violento e alcolizzato (tutta colpa di un dolcissimo vino kosher), dei sensi di colpa della madre, della vergogna provata dalla sorella, delle proprie esperienze di scrittore, sceneggiatore, copywriter, sempre in bilico fra arte e vil denaro. Il volume è un lungo tentativo di esorcizzare una vita insensata, vissuta male per un marchio originario e di evitare che analoghe dinamiche investano le vite dei suoi figli. Figura imprescindibile per l’ottima fattura di questo libro è Orli, personaggio memorabile, moglie di Auslander, di cui non diciamo nulla, va semplicemente scoperta durante la lettura.
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