Nella Striscia di Gaza, oggi, la parola «fame» ha perso ogni distanza teorica: è diventata una condizione concreta, quotidiana, disperata. Non più una parola che evoca immagini vaghe di povertà, ma una condizione reale e inarrestabile che sta consumando lentamente oltre due milioni di persone. Secondo un rapporto del Global Nutrition Cluster, una partnership di organizzazioni umanitarie guidata dal Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia (UNICEF), l’intera popolazione gazawi è in questo momento a rischio insicurezza alimentare acuta, e sta già affrontando livelli di carestia classificati come «catastrofici». Il World Food Programme, parte delle Nazioni Unite, ha dichiarato che la crisi alimentare nella Striscia ha raggiunto «nuovi e sorprendenti livelli di disperazione, con un terzo della popolazione che non mangia da diversi giorni consecutivi».

Intere famiglie sono costrette a digiunare per giorni, i bambini si addormentano piangendo per la fame, e i neonati mostrano già segni di grave malnutrizione acuta. Non si tratta più semplicemente di «emergenza umanitaria», ma piuttosto di un collasso deliberato del diritto alla sopravvivenza. Quello che sta succedendo a Gaza non è solo mancanza di cibo, è la sistematica erosione di ogni funzione vitale, individuale e collettiva, che si manifesta nel corpo, nella psiche e nel tessuto stesso della società.

Eppure, i numeri non bastano. Non raccontano l’abisso, non traducono il silenzio di chi non ha più voce per piangere. Chi osserva da lontano fatica a comprendere che morire di fame non è un evento improvviso, ma un processo lento e devastante, fatto di fasi progressive in cui il corpo, per sopravvivere, inizia a consumare sé stesso.

Come ha spiegato il medico James Smith, medico d’urgenza che ha prestato servizio volontario due volte a Gaza, in un’intervista ad Al Jazeera, ciò che da mesi Israele infligge alla popolazione palestinese «è uno dei modi più indegni e barbari di uccidere». «La fame è sempre qualcosa che viene inflitta da una persona a un’altra. È pensata per essere prolungata e per massimizzare la sofferenza» ha aggiunto Smith.

Che cosa vuol dire, davvero, morire di fame

Morire di fame è un processo lento, brutale, e scientificamente tracciabile. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, e secondo un’analisi pubblicata su Scientific American, la fame cronica agisce sul corpo come una spirale degenerativa.

Nelle prime fasi, l’organismo consuma le riserve di zuccheri (glicogeno) e, quando queste si esauriscono, inizia a bruciare i depositi di grasso. Ma il corpo non può vivere a lungo solo di grassi. Così, nella fase successiva, attacca le proprie proteine, iniziando a degradare i muscoli. Compresi, tragicamente, quelli del cuore. Ne consegue una progressiva perdita di massa, una compromissione della funzionalità cardiaca e un indebolimento drammatico del sistema immunitario.

Il metabolismo rallenta, la temperatura corporea si abbassa, la pressione si fa instabile. Il corpo sperimenta debolezza profonda, dolori muscolari, disorientamento e, nei casi più avanzati, uno stato di apatia che precede il coma. Le infezioni più comuni, in assenza di difese, diventano potenzialmente letali.

Il senso di fame, inizialmente acuto, si affievolisce fino a scomparire: non per sazietà, ma per mancanza di energia persino a livello percettivo.

Ancora prima che il corpo ceda, tuttavia, è la mente a essere colpita. Gli effetti della malnutrizione sul cervello, soprattutto nei bambini, sono tra i più gravi e duraturi. Le carenze di micronutrienti fondamentali (come ad esempio ferro, zinco, iodio, vitamina A, vitamina B12) compromettono lo sviluppo neuronale, ostacolano la formazione delle connessioni sinaptiche e influiscono sulla maturazione delle aree cerebrali deputate al linguaggio, alla memoria, all’attenzione e al controllo emotivo. Come evidenziato da numerosi studi condotti da organismi internazionali come l’OMS e il Global Nutrition Cluster, la malnutrizione nei primi anni di vita produce effetti irreversibili sullo sviluppo cognitivo e psico-motorio. Non si tratta solo di una crescita rallentata, ma di un danno strutturale alle connessioni cerebrali: il cervello del bambino affamato è meno plastico, meno reattivo, più esposto a disturbi dell’umore e a difficoltà di apprendimento. In molti casi, le conseguenze si protraggono per tutta la vita, riducendo le opportunità sociali, lavorative, relazionali. È una ferita invisibile, ma devastante.