di
Greta Privitera

L’esercito di Netanyahu parla di prove contro il cronista, ma non ha diffuso l’integrale dei documenti. La tv qatarina respinge ogni accusa

Pochi minuti prima, Anas al-Sharif posta sui social un video in cui mostra il cielo della notte sopra Gaza, da dietro una rete di protezione. All’improvviso, il buio viene squarciato da una scia di luce seguita da un boato. «Bombardamenti senza sosta. Nelle ultime due ore, l’aggressione israeliana contro Gaza City si è intensificata», scrive il corrispondente di Al Jazeera che si trova davanti all’ospedale di Al Shifa. Non sapendo che il prossimo missile sarebbe stato destinato a lui. Un attacco mirato dell’esercito israeliano, proprio sulla tenda dove si trovava insieme ad altri giornalisti, uccide sei persone. Oltre ad Al Sharif, muoiono un altro corrispondente della tv qatarina, Mohammed Qreiqeh, i cameraman Ibrahim Zaher, Mohammed Noufal e Moamen Aliwa e il fotoreporter Mohammed Al-Khaldi.

L’esercito israeliano rivendica l’azione, spiegando che Anas al-Sharif era a capo di una cellula di Hamas. Lo accusano di aver pianificato attacchi missilistici contro civili israeliani e forze dell’esercito. Sempre secondo l’esercito, ci sarebbero documenti che mostrano il collegamento del giornalista all’organizzazione terroristica palestinese. Al Jazeera sementisce le accuse.
I documenti di cui parlano le Forze di Difesa israeliane dovrebbero contemplare «elenchi del personale, liste di corsi di addestramento, rubriche telefoniche e pagamenti». Sono stati resi pubblici alcuni screenshot di fogli di calcolo che includerebbero uomini che lavorano per Hamas nel nord della Striscia, nomi di feriti e una parte di una rubrica telefonica di quello che dovrebbe essere il battaglione East Jabaliya. Ma sono affermazioni che non si possono confermare perché non sono stati resi pubblici i presunti documenti integrali alla base delle accuse.



















































Che Al Sharif fosse un «ricercato» speciale di Benjamin Netanyahu non è una novità. Il 31 luglio, Irene Khan, relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla libertà di espressione, ha detto che «gli attacchi online e le accuse infondate dell’esercito contro il giornalista di Al Jazeera sono un palese tentativo di mettere a repentaglio la sua vita e di mettere a tacere i suoi reportage sul genocidio a Gaza».
E Al Sharif lo sapeva. Il 6 aprile scrive un testo che gli amici avrebbero dovuto pubblicare in caso di sua morte. Recita: «Ho vissuto il dolore in tutti i suoi dettagli e ho assaporato ripetutamente il dolore e la perdita. Nonostante ciò, non ho mai esitato a trasmettere la verità così com’è, senza distorsioni o travisamenti, sperando che Dio fosse testimone di coloro che sono rimasti in silenzio, di coloro che hanno accettato la nostra uccisione e di coloro che hanno soffocato il nostro respiro. Nemmeno i corpi straziati dei nostri bambini e delle nostre donne hanno commosso i nostri cuori o fermato il massacro a cui il nostro popolo è sottoposto da oltre un anno e mezzo».

Lo conoscono tutti a Gaza, Al Sharif. Lui e il suo giubbotto antiproiettili, azzurro, con la scritta «Press» in bianco. Volto principale dei racconti di guerra e fame per Al Jazeera, non ha mai lasciato la parte settentrionale della Striscia, la zona più colpita dai bombardamenti. Era uno dei pochi ancora lì.  Lo chiamano «martire», «eroe». 

Il collega Safwat Kahlout, anche lui di Gaza, anche lui corrispondente per Al Jazeera, conosce bene il giovane cronista ucciso. Kahlout ha lasciato la Striscia l’anno scorso «per mettere in salvo i miei figli» ed è arrivato in Italia con la sua famiglia. R acconta che nonostante Al Sharif sapesse di essere diventato un obiettivo dell’esercito israeliano, gli aveva raccontato che non si sarebbe fermato. «Noi stavamo nella parte meridionale, mentre lui ci mandava le sue coraggiose corrispondenze dal nord». Quando gli chiediamo che cosa pensa delle accuse di terrorismo, Kahlout ride: «La cosa che mi fa arrabbiare – commenta il giornalista – è che se pensavano davvero che avesse legami con il terrorismo, potevano prenderlo e portarlo davanti a un tribunale, e invece no, hanno bombardato la sua tenda con altri cinque palestinesi». Nonostante, nella sua conferenza stampa di ieri, Netanyahu abbia fatto sapere che è intenzionato ad aprire la Striscia ai giornalisti internazionali, a oggi, gli unici occhi di Gaza sono quelli dei reporter locali. Secondo Reporter Senza Frontiere, sono circa 200 i giornalisti palestinesi uccisi dall’inizio del conflitto. 

Al Sharif lascia due figli piccoli: Salah, 15 mesi, e Sham, 4 anni.

11 agosto 2025 ( modifica il 11 agosto 2025 | 17:00)