«È l’inverno del 2020, a marzo scoppia la pandemia e arriva il lockdown. Per Emma è una fortuna, non deve più andare a scuola e condividere lo spazio con quei ragazzi per niente simpatici. Chiusa in casa, con il fardello della didattica a distanza, è costretta a fare molto i conti con se stessa: si osserva, si ascolta, si vede gonfia e non si piace. Si impone allora una dieta e inizia ad allenarsi in camera. Ha solamente 15 anni, è nel pieno dello sviluppo: sarebbe normale vedersi diversa, il suo corpo sta passando da quello di una bambina a quello di una donna, ma Emma non riesce ad accettarlo, si sente pesante, un sasso gettato in un fiume. Vuole essere leggera, rapida, scivolare su tutto e tutti, per dimenticare sguardi e parole pungenti».

Nel libro, una vita reale

«Un filo sospeso. La mia guerra vinta contro l’anoressia» di Margherita Vaccari

Questo è un passaggio di Un Filo Sospeso – La mia guerra vinta contro l’anoressia, San Paolo Edizioni, il libro scritto in terza persona da Margherita Vaccari, 21 anni, che racconta le sue vicissitudini personali e la sua lotta contro una malattia subdola attraverso il personaggio di Emma.

Emma è nata in Italia, ha vissuto in Brasile per tornare in Italia alla soglia dell’adolescenza. Si è appena abituata alla vita a Torino, quando per motivi familiari deve lasciare tutto per trasferirsi in Germania. Prima di partire, però, cambia scuola, si iscrive a un liceo internazionale appena fuori Torino per essere pronta a studiare in Germania. In questo frangente scoppia la pandemia da Covid-19 e la giovane comincia ad avere in testa solo allenamento e dieta. A stretto giro, come ancora si legge nel libro «dopo qualche mese ottiene il suo risultato tanto agognato: “Ma sei dimagrita?”, “Come stai bene ora”. I giudizi sono finalmente positivi ed Emma sente di essere brava in qualcosa; non riesce a non pensare che, pur essendo sempre stata una brava studentessa, nessuno, né i genitori né i professori, le ha mai dato i crediti che si meritava, dando tutto per scontato. Arriva in Germania si trova subito molto bene con la scuola, i professori e i compagni, con cui crea in fretta un forte legame, ma il cibo e l’allenamento continuano a dominare la sua vita e le sue giornate. Continua a seguire la sua dieta rigorosa e i suoi rigidi, lunghissimi allenamenti… All’inizio del secondo anno, Emma tocca il fondo: il gruppo di amici con cui ha tanto legato inizia a sgretolarsi. Ha bisogno di avere qualcosa sotto controllo, e siccome non riesce a farlo con gli eventi che segnano la sua vita, i trasferimenti, la perdita delle amicizie a lei care, le città e la scuola, decide di controllare il proprio peso. Le sembra la cosa più facile».

Una malattia che per Emma non c’è

«Mia madre si è accorta dopo anni che ero malata di anoressia nervosa: accettarlo è stato davvero difficile, ma quando ne ha preso piena coscienza a fine liceo, dalla Germania mi ha riportato in Italia per curarmi. Io che non capivo proprio cosa dovessi curare, anche se ero arrivata a pesare meno di 40 kg, ero convinta che dopo l’estate sarei partita per frequentare l’università all’estero», racconta direttamente Margherita, che oggi frequenta l’università a Madrid. «Sono stata ricoverata in una struttura privata, dove però non ho trovato assolutamente un’equipe in grado di gestirmi, anzi mi hanno isolato dai miei affetti e per tutta risposta ho iniziato a dire a tutti che volevo solo morire: il mio rifiuto del cibo era un modo per dire che rifiutavo di vivere e per questo tentavo, sia pur non pienamente consapevole, di autodistruggermi: nascondevo il cibo durante i pasti, sputavo l’integratore che mi veniva dato nel lavandino, camminavo tutto il giorno nei due metri di stanza e soffrivo, soffrivo tanto. Fino a quando per strapparmi alla morte hanno iniziato ad alimentarmi con un sondino. Dopo 4 mesi in questa struttura sono stata ricoverata all’ospedale di Torino».

Un nuovo ricovero

«In ospedale potevo finalmente ricevere visite quotidiane e ogni giorno avevo sedute con lo psichiatra. Ho ricominciato a mangiare e mi hanno staccato il sondino. Sembrava che stessi meglio e sono stata dimessa. Il ritorno a casa, però, non ha segnato per me quella svolta positiva che ci aspettavamo: tutti erano impegnati, io non avevo nulla da fare, ho cominciato ad avvertire un forte senso di solitudine e a sentirmi inutile. Per cercare di dominare queste sensazioni ho ricominciato a controllare l’unica cosa che potevo, ovvero il cibo e ho ricominciato a non mangiare e a buttare o nascondere gli integratori. Sono stata ricoverata nuovamente in ospedale dopo due mesi dalle dimissioni, per interrompere quella perdita di peso che poteva solo portarmi alla morte. In reparto hanno deciso di mettermi in lista di attesa per entrare in una comunità di Bologna anche se io non volevo minimamente andarci, soprattutto perché non mi sentivo pronta a dire addio all’anoressia che ormai era diventata la mia compagna fidata», ricostruisce ancora Margherita.

La comunità a Bologna

«All’inizio l’esperienza in comunità è stata molto altalenante, ma poi dopo quasi due mesi ho preso coscienza, sicuramente grazie alle sedute di psicoterapia e all’équipe che mi ha preso in carico che a causa dell’anoressia avevo buttato via già più di tre anni della mia vita».

«Arriva sempre il momento in cui una paziente coglie che la sua anoressia oltre ad avere un significato protettivo ha anche un lato brutale, cannibalico, egemonico. Quel momento è il punto di coraggio che inverte la tendenza di una storia che smette di puntare alla morte e si orienta alla guarigione», sottolinea Leonardo Mendolicchio, medico psichiatra e psicoterapeuta specializzato nella cura dei disturbi alimentari.

E infatti come racconta ancora Margherita\Emma: «Dopo 6 mesi dall’ingresso in comunità ho seriamente ripreso in mano la mia esistenza: tutta l’equipe è stata concorde nel dimettermi e infatti ho potuto iscrivermi all’università come desideravo. Il disturbo alimentare mi ha fatto crescere molto come persona ma, soprattutto, mi ha permesso di vedere la vita con occhi diversi, di apprezzarne ogni momento e di viverne ogni attimo».

La lettera a cuore aperto della mamma

«Sono stata troppo severa? Troppo poco? Ho sbagliato a chiederti di cambiare Paese, scuola e amici così tante volte? Ancora oggi non ho risposte e nessuno le avrà mai, è impossibile riavvolgere il film della nostra vita e cambiare direzione davanti ai bivi che troviamo». Lo scrive a fine libro in una lettera a cuore aperto la mamma di Margherita che aggiunge anche: «Mi ricorderò sempre il giorno in cui tuo papà ti ha dato un aut aut: o tornavi in ospedale (dopo il primo ricovero) o ti trovavi una casa perché nella nostra non voleva che morissi. Sul momento ho pensato che avesse perso la ragione, ma credo che fossero le parole di cui avevi bisogno, perché ti sei fatta ricoverare di nuovo e mettere in lista di attesa per una residenza dove si curano i disturbi alimentari. La residenza è stata la tua salvezza, piano piano hai ricominciato a vivere lottando con tutte le tue forze ed eccoci qua».

Il libro è proprio la testimonianza della volontà di Margherita di tornare alla vita e vuol essere un racconto di speranza per chi si imbatte in un disturbo del comportamento alimentare.