Nella lunga intervista rilascia ieri a questo giornale, Mons. Paglia ha fatto alcune dichiarazioni che meritano qualche chiarimento.

La prima riguarda l’oggetto delle diverse sentenze della Corte Costituzionale sul suicidio assistito. Esse non riguardano solo la non punibilità di chi aiuta, in determinate circostanze precisamente definite dalle sentenze del 2019 e poi del 2024 a porre fine alla propria vita. Riguardano anche sia il diritto a lasciarsi morire rifiutando consapevolmente e liberamente cure necessarie alla sopravvivenza o di iniziare una dipendenza da sostegni vitali, sia, appunto, di essere aiutati a porre fine alla propria vita quando ci si trovi a dipendere da sostegni vitali, si sperimentino sofferenze intollerabili e si percepisca la propria condizione come non degna. Un diritto non a morire (che prima o poi tocca a tutti), ma a decidere quando farlo se la vita è diventata non solo soggettivamente, ma oggettivamente intollerabile.

Va ricordato che da tempo il suicidio non è un crimine nel nostro ordinamento. Le sentenze della Corte Costituzionale lo rendono accessibile, in nome del principio di uguaglianza, non discriminazione e soprattutto autodeterminazione, a condizioni molto circoscritte e di estrema sofferenza fisica e psichica, a chi, pur desiderandolo, non può procedere totalmente da solo/a. Per evitare che le persone dipendenti da sostegni vitali siano spinte a desiderare il suicidio dalla inadeguatezza, cattiva qualità (non solo tecnica, ma umana) dei sostegni che ricevono, le sentenze più volte richiamano l’obbligo che il Servizio Sanitario Nazionale le fornisca in modo adeguato e accessibile a tutti. Ribadiscono anche la necessità che le cure palliative siano garantite come un diritto a tutti coloro che potrebbero giovarsene. Un diritto a riceverle, cosa che è ben lungi dall’essere realizzata nel nostro Paese, come giustamente ricorda Mons. Paglia, non un obbligo a sottostarvi per un certo periodo di tempo prima di chiedere di poter fare richiesta di suicidio assistito, come invece vorrebbe il disegno di legge della maggioranza sul fine vita.

Ma anche una volta garantiti questi diritti, secondo la Corte, se ci sono le condizioni da essa definite, il suicidio assistito va reso possibile. Non solo, vi è una responsabilità precisa del Servizio Sanitario Nazionale sia nell’accertare l’esistenza delle condizioni, sia nel provvedere il necessario. Questo obbligo (che il disegno di legge della maggioranza sembra invece ignorare) appare particolarmente esplicito nell’ultima sentenza della Corte, del maggio scorso, quando ha respinto la richiesta di una signora tetraplegica che il farmaco letale le venisse somministrato da una persona di sua fiducia dato che lei non era in grado di fare i minimi movimenti necessari per provvedere da sé. La Corte, infatti, ha riconosciuto che, in nome del principio di uguaglianza, anche chi, nelle condizioni da essa definite, non può provvedere da sé, ha diritto a porre fine alla propria vita con l’aiuto del Servizio Sanitario Nazionale se lo desidera.

La richiesta è stata respinta perché l’Azienda Sanitaria da cui la signora dipende non aveva fatto una ricerca sufficientemente esaustiva sull’esistenza di strumenti di somministrazione del farmaco che potessero essere azionati da un comando oculare, l’unico (ancora) possibile per la signora.

Vale la pena di riportare per esteso l’argomentazione della Corte: «Deve infatti affermarsi che la persona rispetto alla quale sia stata positivamente verificata, nelle dovute forme procedurali, la sussistenza di tutte le condizioni da questa Corte indicate … – ovvero, l’esistenza di una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, avvertite come assolutamente intollerabili da una persona tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, o per la quale simili trattamenti sono stati comunque indicati, anche se rifiutati, e tuttavia capace di prendere decisioni libere e consapevoli – ha una situazione soggettiva tutelata, quale consequenziale proiezione della sua libertà di autodeterminazione, e segnatamente ha diritto di essere accompagnata dal Servizio Sanitario Nazionale nella procedura di suicidio medicalmente assistito, diritto che, secondo i principi che regolano il servizio, include il reperimento dei dispositivi idonei, laddove esistenti, e l’ausilio nel relativo impiego».

Una legge che regoli in modo chiaro e univoco procedure, tempistiche e responsabilità delle diverse istituzioni è necessaria per uscire dalla casualità delle scelte politiche e sanitarie locali e nazionali. Sarebbe opportuno che non venisse approvata da una parte sola e magari con voto di fiducia, ma fosse sostenuta da un ampio consenso, come auspica Mons. Paglia. Anche se proprio lui sembra chiudere prima di incominciare: «La Chiesa è contraria al suicido assistito». Una posizione legittima, ovviamente, che impegna i fedeli, ma che non può essere usata contro le sentenze della Corte e i paletti minimi che hanno individuato entro cui trovare un equilibrio tra il principio di autodeterminazione e la difesa della vita.