“Alla fine, è tutto nelle mani di Donald Trump”. L’atteggiamento remissivo della presidente Karin Keller-Sutter, al termine del suo fallimentare viaggio negli Usa, fotografa l’equilibrio precarissimo in cui la Svizzera è costretta a muoversi nelle trattative con Donald Trump. Senza ancora essersi riuscita a spiegare il reale motivo, Berna si è però ben resa conto che la Casa Bianca si sta accanendo particolarmente nei suoi confronti, riservandole i dazi doganali più alti tra tutti i Paesi coinvolti nella guerra commerciale americana. Un dazio arbitrario fissato al 39% sul totale delle esportazioni svizzere, forse scelto in ragione dei 39 miliardi circa di deficit commerciale degli Usa, è una cifra astronomica rispetto al 15% imposto all’Ue, al Giappone e alla Corea del Sud. Ma che non si esaurisce qui, perché gli Stati Uniti stanno valutando di colpire tutte le importazioni di farmaci, con un dazio fino al 250%, e tutte quelle di lingotti d’oro da oltre un chilo, il formato più comune e scambiato sul Comex, il più grande mercato mondiale dei futures sull’oro. Settori che rappresentano la parte più redditizia dell’export svizzero negli Usa. L’economia elvetica rischia seriamente di essere spezzata in due da Trump. 

Nel 2024, la bilancia commerciale riconosce un saldo positivo per Berna pari a poco meno di quaranta miliardi. A dominare gli affari naturalmente l’industria farmaceutica elvetica che rappresenta quasi la metà del valore delle merci esportate negli Usa (30 miliardi per un totale di 65 miliardi). I medicinali sono però, almeno per il momento, esentati dai dazi imposti da Trump, ma il presidente degli Stati Uniti ha minacciato di alzarli “gradualmente” prima al 150% e infine al 250%. I calcoli della Casa Bianca d’altro canto si focalizzano sullo scambio di beni, non dei servizi dove gli Stati Uniti vantano un surplus verso la Svizzera di circa 30 miliardi l’anno. La piccola confederazione elvetica, inoltre, è il sesto investitore estero oltre Atlantico, con oltre 350 miliardi di dollari nel 2023.

Tuttavia, pur avendo qualche carta da giocare, Berna ha deciso per il momento di non adottare contromisure. “La missione diplomatica a Washington aveva l’obiettivo di presentare una nuova offerta alle autorità statunitensi: un obiettivo raggiunto, che rappresenta uno sviluppo positivo”, ha detto la presidente Keller-Sutter, evidenziando che “era chiaro che Donald Trump avrebbe mantenuto i dazi nel breve termine”. Tuttavia “al momento” non verranno adottate contromisure. Ufficialmente, per portare avanti il dialogo diplomatico, ma è chiaro che la Svizzera non è la Cina, e ha più da perderci che da guadagnarci in uno scontro totale con Washington.

Le tariffe  interessano oltre il 60% dell’export svizzero verso gli Usa. Con la spada di Damocle sospesa sulle big pharma elvetiche – a partire da Roche e Novartis – minacciate da tariffe che potrebbero arrivare fino al 250%, il resto delle esportazioni ruota intorno agli orologi, cioccolata, capsule per il caffé e soprattutto lingotti d’oro. 

Quanto ai farmaci, per poco meno della metà esportata si tratta di compresse, capsule, iniezioni di tipo oncologico o anti-Hiv, farmaci per malattie rare come SMA e fibrosi cistica, un altro 35% è rappresentato da anticorpi monoclonali, farmaci mRNA, inclusi i vaccini Covid, mentre un 15% è riconducibile a principi attivi di vario genere. Le tariffe rischiano quindi di colpire i colossi della farmaceutica elvetica come Roche e Novartis: la prima esporta in Usa prodotti per l’oncologia e l’immunoterapia, la seconda è orientata sul Biotech e le malattie rare. 

Rischia di pagare un pesante dazio anche il settore degli orologi svizzeri di lusso. Circa il 25-30% della produzione Rolex, la celebre azienda di orologi di Ginevra, è destinata agli Stati Uniti. In valore, il mercato americano rappresenta oltre tre miliardi di dollari l’anno al prezzo retail, ma gli Stati Uniti sono anche un centro chiave per il mercato secondario. Da sola Rolex rappresenta circa la metà del valore totale (5,5 miliardi di dollari) dell’orologeria svizzera destinata ogni anno al mercato a stelle e strisce, dove arrivano anche altri marchi come Patek Philippe, Tag Heuer e Swatch.

Secondo quanto riferito al Financial Times da Jefferies, i produttori svizzeri Swatch Group e Richemont, così come Watches of Switzerland, grande rivenditore di Rolex e Patek Philippe quotato alla Borsa di Londra, dovranno affrontare “difficoltà” se i dazi entreranno in vigore la prossima settimana come previsto. Anche i marchi di lusso che limitano deliberatamente l’offerta per aumentare la desiderabilità e il valore, come Rolex e Patek Philippe, ne subiranno l’impatto, nonostante la clientela facoltosa perché il dazio si sommerà alla forza del franco svizzero sul dollaro, un tasso di cambio che rende meno competitive le esportazioni. Sebbene gli orologi svizzeri di lusso siano talvolta considerati un bene rifugio, dove i più ricchi “parcheggiano” le proprie risorse consapevoli che si tratta di beni durevoli, dal valore stabile e facilmente liquidabili in denaro, le imposte americane rischiano di danneggiare il mercato secondario, quello delle rivendite, che ne contribuisce a tutelarne il prezzo. Chi comprerà un orologio per poi rivenderlo di seconda mano quando può acquistarlo dove la valuta non è così debole e la dogana non è così feroce? Gli orologi d’altro canto rappresentano il 10% dell’export totale svizzero negli Usa e il mercato americano rappresenta il 20% delle esportazioni complessive di orologi elvetici. 

Infine, l’ultimo capitolo aperto da Trump riguarda i lingotti d’oro. Secondo Il Consiglio federale svizzero è il metallo più prezioso a confondere la lettura americana perché l’oro ha l’effetto di gonfiare il surplus commerciale. La Svizzera ospita numerose raffinerie, dove i lingotti importati principalmente dal Regno Unito vengono fusi per soddisfare gli standard statunitensi. Questi scambi portano quindi a una distorsione statistica negli scambi, secondo Berna. 

Ma l’amministrazione Trump non sembra curarsene. Nel 2023 l’oro svizzero sbarcato negli Usa ha superato i 25 miliardi di dollari in valore, quota che ha continuato a salire anche nel 2024 anche per effetto delle politiche monetarie della Federal Reserve, dell’inflazione e delle tensioni geopolitiche: i tassi elevati e l’incertezza hanno l’effetto di spingere gli investitori verso i beni rifugio, di cui l’oro è il simbolo per eccellenza. Non a caso il metallo ha raggiunto livelli record, superando ampiamente la soglia dei 3000 dollari l’oncia (ora sfiora i 3400 dollari)

Il trend ora si sta già invertendo: l’agenzia statunitense Customs and Border Protection ha stabilito che i lingotti da un chilo e da 100 once rientrano in una categoria doganale soggetta a imposte, smentendo le attese del settore che ne prevedevano l’esenzione. Una decisione che rischia di colpire duramente la Svizzera, centro nevralgico della raffinazione mondiale dell’oro e tra i principali esportatori verso gli Stati Uniti. I lingotti rappresentano tra il 90 e il 95% dell’export totale.

Secondo l’ultimo report del World Gold Council, nel secondo trimestre del 2025 la domanda complessiva di oro negli Stati Uniti è diminuita del 34% rispetto al trimestre precedente. La domanda di lingotti e monete ha toccato il punto più basso dal 2019, con sole 9 tonnellate acquistate e un calo annuo del 53%. I dazi sui lingotti rendono economicamente impraticabile la loro esportazione negli Stati Uniti, secondo la Swiss Gold Association che mette in guardia sull’impatto delle tariffe sugli scambi internazionali fisici di oro.

Per ora a farne le spese è sicuramente e di gran lunga la Svizzera. La presidente Keller-Sutter e il ministro dell’Economia Guy Parmelin si sono recati negli Stati Uniti, ma hanno potuto incontrare solo il segretario di Stato americano Marco Rubio e non Trump. Tra i partecipanti nella delegazione elvetica il presidente di Roche, Severin Schwan, i co-fondatori del colosso del private equity Partners Group, Alfred Gantner e Marcel Erni, il numero uno del gruppo energetico e di materie prime Mercuria,  Daniel Jaeggi, e il Ceo di Swiss International Airlines, Jens Fehlinger. Uno sforzo diplomatico nazionale pubblico e privato che tuttavia non ha per ora sortito alcun effetto nel neutralizzare la minaccia di Trump al ruolo della Svizzera come hub finanziario globale.