di
Fiorenza Sarzanini

La figlia del funzionario del Sismi ucciso a Bagdad vent’anni fa durante la missione per salvare Giuliana Sgrena: «Era il mio eroe, ci bastava uno sguardo. Aveva perso il sorriso. Manifestavo per la pace, ma lui mi diceva di non andare»

Silvia, ci racconta chi era Nicola Calipari?
«Un uomo perbene, che ha servito con dignità e onore lo Stato».

Un eroe?
«Il mio eroe sicuramente. Pubblicamente no, perché per me gli eroi sono anche persone che vogliono apparire e invece lui aveva grandi valori, un forte senso dello Stato e un immenso rispetto della vita».



















































Per Giuliana Sgrena è stato eroe.
«Ha fatto quello che era nella sua natura. Aveva promesso e si era promesso che l’avrebbe riportata a casa. Ha onorato l’impegno».

Sono trascorsi vent’anni da quando Nicola Calipari, all’epoca alto funzionario del Sismi, il servizio segreto militare, fu ucciso in una strada di Bagdad mentre riportava a casa la giornalista del Manifesto Giuliana Sgrena, rapita il 4 febbraio e rimasta per un mese nelle mani dei suoi sequestratori. Ammazzato dal fuoco amico degli americani che spararono contro la sua Toyota Corolla quando era a meno di un chilometro dall’aeroporto dove lo attendeva un volo dei servizi segreti che doveva farli rientrare in Italia. Calipari fece scudo con il proprio corpo alla giornalista. La sua storia è diventata un film, Il Nibbio, trasmesso da Netflix.

11 ago 2025

Silvia, lei è la figlia maggiore, all’epoca aveva 19 anni. Cosa ricorda di quel giorno?
«Ho sentito in tv la notizia che Giuliana Sgrena era stata liberata e ho pensato: ecco finalmente papà torna a casa. E invece…». Silvia fa una pausa come a prendere fiato: «Soltanto dopo ho saputo da mia madre che quella doveva essere la sua ultima missione, che aveva già deciso di rientrare in polizia. Io comunque avevo intuito il suo malessere».

In che senso?
«Non era più sereno, era sempre preoccupato. Non lo vedevo più, o era all’estero o rientrava in tarda serata. Non gliel’ho mai detto, però io speravo che finisse prima possibile. A me interessava che ricominciasse a fare un lavoro che gli facesse tornare il sorriso».

Che cosa lo angosciava?
«Con noi non parlava mai del suo lavoro, nemmeno quando faceva il poliziotto. Il fatto che avesse partecipato alla liberazione di Soffiantini l’ho scoperto leggendo il giornale. E dopo, quando è entrato nei servizi segreti, ancora di più. Ricordo che quando furono liberate le due Simone uscì un articolo dove si faceva il suo nome e si diceva che era il negoziatore. Non ne abbiamo mai parlato ma ho capito subito che in quell’occasione lo avevano messo in grande difficoltà».

Lei non faceva domande?
«Era un tacito accordo tra noi. E questo ha fatto scattare in me una riservatezza totale. Ora faccio fatica anche a dire dove abito. Io non ho mai fatto domande, sapevo che del lavoro di papà non si doveva parlare».

E sul resto andavate d’accordo?
«Era spesso lontano, ma sempre molto presente. Riusciva ad esserci sia nei momenti importanti, sia nelle cose normali. Quando ero piccola era lui ad addormentarmi, trovava sempre il tempo per noi. Quando sono cresciuta non ricordo una volta in cui l’ho cercato e non mi ha risposto al telefono».

11 ago 2025

Era una papà severo?
«Direi esigente. Ti diceva quello che andava fatto, ma spiegandoti i motivi. Anche quando non voleva che facessi una cosa, mi spiegava le sue ragioni. È sempre stato un padre accogliente».

Quando è stata sequestrata Giuliana Sgrena lei sapeva che era lui a gestire le trattative per il rilascio?
«Stavamo partendo tutti insieme — lui, mia mamma, io e mio fratello — per la settimana bianca. È arrivata una telefonata e siamo tornati indietro. Io però credevo che dovesse coordinare il lavoro degli altri, non sapevo fosse operativo».

Invece è partito per l’Iraq.
«Sapevo del rapimento e ho fatto due calcoli. Ho capito dove andava. Quel giorno era preoccupato, è stato sempre al telefono, avrà fumato un pacchetto di sigarette».

Che cosa vi siete detti?
«Non abbiamo mai avuto bisogno di parlarci. Tra noi c’erano gli sguardi e questo bastava. Anche se doveva sgridarmi o farmi un complimento. Era una cosa tra me e lui. I suoi occhi parlavano, spiegavano. E ci capivamo».

Quando lo ha visto andare via era spaventata?
«Ero in quella fase della vita in cui pensi che tutto vada bene, quindi non avevo paura».

Era fiera di lui?
«Capivo che stava facendo una cosa importante. Sinceramente ero tranquilla, ripeto non l’ho mai creduto in situazioni di pericolo».

E invece?
«Avevo la tv accesa, stavo studiando per un compito in classe e ho sentito la notizia che Giuliana Sgrena era stata liberata. Ho chiamato subito mia mamma. Eravamo felici. Poi ho provato a chiamare lui, non mi ha risposto. All’improvviso è cambiato tutto».

Come ha saputo che era morto?
«La nostra casa si è riempita di gente. Inizialmente ho sperato con tutto il cuore che fosse ferito. Nell’ingenuità dei 19 anni non pensi alle cose peggiori. Solo dopo che i telegiornali diedero la notizia, il capo del Sismi ci comunicò che era stato ucciso dagli alleati americani».

Nessuno aveva ritenuto di dovervi avvertire?
«Nessuno».

In questi anni chi è stato al fianco della sua famiglia?
«Gli amici di sempre, i comuni che hanno intitolato strade, piazze e scuole, la comunità scout e i tanti cittadini che ci hanno dimostrato solidarietà, affetto e stima negli anni e anche in occasione dell’uscita del film».

Dopo la disperazione c’è la rabbia?
«Tanta rabbia, anche perché siamo stati catapultati in una realtà che non era nostra, in un mondo che non conoscevamo. Io per carattere non amo apparire, in quei momenti è stato terribile. Eravamo al centro dell’attenzione, avevamo i giornalisti sotto casa, inseguiti ovunque. È stato pesantissimo anche perché io volevo soltanto stare da sola. Non volevo contatti con il mondo e invece ero nel caos. Persino il funerale l’avrei voluto solo per noi. Ci sono voluti tanti anni per riuscire ad attenuarla, ma so che non mi passerà mai».

Pensa che suo padre non doveva andare in Iraq?
«No, se non fosse andato in Iraq, se non avesse fatto tutto il possibile per liberare Giuliana Sgrena, come aveva già fatto per altri ostaggi, sarebbe andato contro il suo forte senso del dovere e di responsabilità verso lo Stato. La mia rabbia non era rivolta contro di lui, ma verso quella guerra sbagliata. Per questo motivo avevo partecipato alle manifestazioni pacifiste, anche se lui mi aveva detto di non andare. Come lui sono stata scout, questi sono i nostri valori».

Lo sparatore è il soldato Lozano, lei crede che sia stata una tragica casualità?
«No, non credo che la casualità appartenga a quel mondo».

Gli Stati Uniti non hanno mai concesso l’estradizione e il processo non è stato celebrato. Quello di suo padre è un delitto senza colpevoli?
«Sì perché non abbiamo ottenuto giustizia né temo che sarà possibile conoscere i reali responsabili della morte di mio padre».

Sta dicendo che Nicola Calipari è stato tradito?
«Mio padre è stato lasciato solo. La sua grande generosità, anche nel lavoro lo ha penalizzato in quell’ambiente. Era troppo per bene per quel mondo, che alla fine lo ha tradito».

L’Italia poteva fare di più per dargli giustizia?
«Di meno sarebbe stato difficile».


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12 agosto 2025