Una outsider che si sente terribilmente viva e libera, fuggendo da un insediamento inglese nel Nuovo Mondo. Una schiava vessata, derisa, violentata che sceglie di correre a perdifiato e immergersi nella natura inclemente, compenetrandosi nella bellezza e nella durezza di quel che vede e di ciò che affronta. È la protagonista del bellissimo romanzo di Lauren Groff, “Nel vasto mondo selvaggio”, scritto in una prosa fluida e febbrile: un’odissea che sgretola le certezze della giovanissima ragazza in fuga, analfabeta e devota…
L’impareggiabile Lauren Groff, classe 1978 (la generazione è più o meno quella di Jesmyn Ward e Zadie Smith, per dire di altre due amiche geniali di chi legge), ha scritto un altro romanzo capace di resistere al tempo. I lettori italiani hanno avuto molte occasioni per scoprire questa scrittrice statunitense in grado di scrivere di qualsiasi cosa con la medesima consapevolezza e credibilità. L’hanno pubblicata prima Einaudi, poi Codice, infine Bompiani, che ha in catalogo i suoi titoli maggiori, fra cui il più recente, tradotto ancora da Tommaso Pincio, Nel vasto mondo selvaggio (236 pagine, 20 euro), dai riferimenti cronologici non esattamente definiti (i primi del diciassettesimo secolo?), un romanzo figlio del mito, delle fiabe e anche delle sacre scritture, che si ricollega idealmente al precedente di Lauren Groff, Matrix, altra storia – in un altro tempo, contesto e continente – al femminile. Assieme un ideale dittico, che in futuro dovrebbe diventare trilogia.
Tutto pur di andar via
Un inestinguibile desiderio di fuggire e sopravvivere arde nel cuore della ragazza che si prende sempre la scena, correndo a perdifiato verso il nord, oltre i suoi limiti. Vorrebbe raggiungere le colonie francesi in Canada. Non si comprende subito da cosa l’orfana – con le mani insanguinate, un paio di stivali rubati e un coltello – stia fuggendo, la verità emerge lentamente attraverso flashback, che sono figli di visioni, allucinazioni e sogni. È disposta a tutto, la ragazza, pur di allontanarsi dai ricordi che la braccano, circondata quasi sempre dalla natura, spesso inclemente, ma in una sorta di relazione panteistica con essa; in agguato, però, ci sono tante cose che demoliscono lentamente le sue certezze, a cominciare da quelle religiose, da una fede cristallina e inscalfibile. Certezze che aveva prima di partire, di scappare via da Jamestown, da un insediamento di coloni inglesi in Virginia, dove era balia (nel Nuovo Mondo era giunta da Londra, al seguito dei padroni); dove guerre, epidemie, carestie e dinamiche violente (perfino il cannibalismo) non consentono alla ragazza, illetterata e pia, considerata poco più di un «animaletto», chiamata talvolta Zeta (come l’ultima delle lettere), di resistere un secondo di più. La morte di Bess, la piccola con un ritardo mentale di cui si prende cura («la creatura con cui condivideva ogni notte il letto. Non era un lavoro di serva, il suo, ma semmai di adorazione»), è un evento decisivo, spezza l’ultimo, l’unico legame col passato, in cui ha sempre chinato il capo, umile, sottomessa, vessata e anche violentata.
Una “civiltà” in cui non si riconosce
Aveva sedici o diciassette o forse diciotto, ma la natura selvaggia l’aveva segnata nel profondo, strappandole per sempre la gioventù.
Sebbene i fantasmi del passato non la mollino, la protagonista (scampata già in orfanotrofio alla peste), senza nomi e finalmente senza padroni, continua fin quando può ad allontanarsi dalla cosiddetta “civiltà”, una civiltà di dominazioni e sopraffazioni, in cui non si riconosce, che l’ha trattata da nullità.
Il dio della mia gente è mosso da una fame che si sazia soltanto con la dominazione. La mia gente dominerà finché non resterà più niente, poi mangerà sé stessa. Io non sono una di loro. Non voglio esserlo.
Ha a che fare, continuamente, con la bellezza del creato – che la conforta e la respinge – e con sofferenze e privazioni, anche fame, sete e freddo, che non placano il suo desiderio di vivere pienamente la vita. Si ingegna, si dispera, supera i propri limiti, si immerge nella meraviglia, gode di attimi di redenzione fermandosi ad ammirare la bellezza, comincia a dubitare di Dio, o almeno della sua idea tradizionale, e a intravedere il nulla.
E forse, pensò, dio no è né trino né singolo ma molteplice, vario quanto le tante creature viventi che vivono sulla terra.
Forse dio è tutto.
Forse dio viveva già in tutto.
E quel luogo e quella gente non avevano bisogno degli inglesi per avvicinarsi a dio.La voce che ogni tanto le risuonava nell’orecchio disse, con molta delicatezza, E se, ragazza, dio è tutto; significa che all’interno di quel tutto che è dio non c’è niente?
E si mette in discussione, la protagonista, si rende conto che nella natura il destino dell’uomo è più o meno quello del pulviscolo, e che se la civiltà umana si fonda sul dominio è aberrante, destinata a soccombere, e che «essere sola e sopravvivere non è lo stesso che essere vivi». Più Robinson Crusoe che La strada, comunque. E anche un pizzico di Shakespeare, Lauren Groff delizia con un cameo del Bardo («una specie di passero con un orecchino d’oro e un’eccessiva irrequietezza nelle gambe, sempre intento a scribacchiare quel che veniva detto in un libretto minuscolo con un pezzo piombo abilmente intagliato») in un flashback inglese della storia.
La brutalità che non esclude la poesia
Metti da parte i ricordi, ragazza, si disse con severità. Il dolore potrebbe divorarti.
Il realismo più crudo e brutale della maggior parte di queste pagine non esclude la poesia. La protagonista di Nel vasto mondo selvaggio sperimenta di tutto, la malattia, il sesso, la paura, la solitudine più lancinante, forse anche l’amore (sulla nave che la porta oltreoceano, con un olandese, un soffiatore di vetro poi morto), affronta a ogni tramonto il dilagare dell’oscurità, impara a procacciarsi il cibo (si nutre di trote e scoiattoli), incontra animali feroci, figure erranti e nativi americani. Rivendica un’identità, disfacendosi delle gerarchie e dell’ordine sociale in cui è a lungo rimasta incastrata. Una outsider che vive nella libertà, si sente terribilmente viva e libera. Come colei che l’ha creato, il demiurgo Lauren Groff, epica e visionaria, ecologica e spirituale, introspettiva e politica, che incanta con la sua prosa fluida e febbrile, ma non vuole confortare nessuno, che dimostra, opera dopo opera, di dar vita a una produzione quanto mai eterogenea per temi e stili, di avere le idee chiarissime su dove vuole andare, di orientarsi ben più di quanto faccia la sua eroina nei boschi, da cui si congeda facendola carezzare dal vento.
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