di
Walter Riolfi
C’è chi ritiene poco significativo l’impatto delle tariffe, chi predice stagnazione e chi pensa che pagheranno soprattutto i consumatori americani
Trump ha vinto su tutti i fronti. Ha imposto dazi al mondo intero e li ha fissati alla massima convenienza per gli Stati Uniti. Ha preteso investimenti per migliaia di miliardi da Europa e Giappone e ha ottenuto l’impegno dall’Unione europea ad acquistare armi ed energia per 750 miliardi. S’è assicurato entrate tariffarie stimabili attorno ai 400 miliardi all’anno, sufficienti a compensare i tagli delle tasse contenuti nella sua «grande e bellissima legge finanziaria». In questo modo, ha costretto il resto del mondo a finanziare, ancor più del passato, le finanze e l’economia del suo paese. Infine, ha guadagnato consenso politico interno e fatto credere che le tariffe siano davvero una bella cosa, perché fanno bene all’economia e a Wall Street.
Il solito paradosso
Il paradosso è che, nei giorni seguenti agli accordi, sono state le Borse di Tokyo e d’Eurozona a festeggiare con corposi rialzi. E Tokyo ha toccato addirittura i massimi di sempre. Le vittime ringraziano.
Eppure, l’accordo accettato da Ursula Von der Leyen è «molto asimmetrico», commentano gli economisti di Unicredit: non un buon accordo, perché le tariffe applicate dagli Stati Uniti sono più alte di quelle imposte dall’Unione europea. Certo il 15% è meglio del 30% minacciato, ma l’impegno ad acquistare energia e armamenti per 750 miliardi di $, sommato ai 600 miliardi in investimenti, non è poca cosa ed equivale a oltre il 4% del Pil americano. «Asimmetrico» e una «sconfitta per la Ue», l’ha giudicato Olivier Blanchard, ex capo economista del Fmi. Una «umiliazione», hanno aggiunto altri economisti e la stampa tedesca, perché accentua la nostra dipendenza tecnologica e militare dall’America.
Una lettura diversa arriva dagli analisti di Carmignac: «Più che da motivazioni economiche, il dietrofront di Bruxelles è stato guidato da un calcolo strategico», sostengono, perché rafforza «l’impegno di Trump verso l’Ucraina». L’accordo permetterebbe dunque di «continuare a fornire armi all’Ucraina tramite acquisti finanziati dall’Ue». Inoltre, la promessa d’investire 600 miliardi di dollari in America e importare energia per altri 750 sembra «più di facciata»: perché, pur «saturando le esportazioni (di energia) statunitensi, si arriverebbe a malapena a 150 miliardi di dollari».
Ciò che più stupisce sono le ridotte stime dei danni che America ed Europa subirebbero da questa globale guerra doganale: conseguenze negative del tutto marginali, sia per la crescita economica, sia per l’inflazione. «Il peggio è passato» scrive Ubs, pur riconoscendo che l’attuale livello delle tariffe è «sei volte superiore a quello stimato prima di aprile». Secondo la banca svizzera, il pil dell’area euro potrebbe ridursi dello 0,2-0,4% e per gli Stati Uniti, l’accordo sarà solo «leggermente inflattivo». Per Unicredit, i danni di tariffe più alte delle attese saranno compensati da un «più benigno umore», e il Pil d’Eurozona crescerà dell’1%, più di quanto si stimasse mesi fa.
Secondo S&P Global, i dazi «difficilmente condizioneranno in modo significativo l’attività economica». E, a sentire Julian Hinz del Kiel Institute, il risultato di tutta questa guerra commerciale sarebbe una riduzione del pil tedesco dello 0,13%, ossia nulla. Più attendibile pare l’analisi di Nicola Mai di Pimco, per il quale la crescita d’Eurozona si ridurrebbe di «quasi un punto percentuale», che equivale a una stagnazione. Una voce discordante, ma autorevole, è quella di Lorenzo Codogno: i perdenti di questa guerra commerciali saranno i consumatori americani che, nel giro di tre mesi, si troveranno a pagare molto più care le merci importate.
La stima dei danni
Eppure, già prima di aprile, gli economisti delle banche d’investimento prefiguravano danni economici di almeno un punto percentuale al pil Usa e di poco inferiori per l’Eurozona, accompagnati da un’inflazione in forte ascesa, specie in America. E allora si prospettavano tariffe non superiori al 5%, non al 20% medio (universale) come parrebbero adesso. Per capire il rapido mutamento d’umore degli economisti ci viene in soccorso la psicologia e l’ultimo sondaggio del WSJ ne è la prova. Il 47% degli intervistati ritiene l’economia americana «eccellente o buona», una percentuale di 11 punti superiore ad aprile, la più alta dal 2021. Cala di poco persino la schiera di chi giudica negative le politiche commerciali di Trump, cosicché il grado di approvazione del presidente resta stabile al 46%.
Questa ondata di ritrovato ottimismo s’è formata a metà aprile, quando Trump fece un’apparente marcia indietro sulle tariffe. Ma stupisce che tanta fiducia sia rimasta intatta con dazi ora negoziati quasi allo stesso livello di quelli minacciati nel «Giorno della liberazione».
Siccome non pare che l’economia americana sia migliorata, si deve concludere che una borsa, cresciuta più del 28% dal 9 aprile, sia l’artefice di tanto ottimismo. Wall Street si direbbe inebriata dall’euforia. JPMorgan dice che c’è troppa «compiacenza» sul mercato; Deutsche Bank accusa i piccoli investitori di insensata speculazione; Ubs punta il dito contro gli algoritmi che seguitano a comprare azioni quando la volatilità è bassa; e Goldman Sachs calcola un livello di speculazione pari quasi a quello della bolla degli anni 1998-2001.
E di nuovo Goldman incolpa la clientela «al dettaglio», e mostra come il paniere dei titoli amati dai piccoli investitori (quasi tutti appartenenti a società che non producono utili) siano volati di oltre il 50% da aprile. Avverte che, quando in passato s’era manifestata una insana euforia, l’indice aveva generato ritorni deludenti nei mesi a seguire. Vero. Ma perché Goldman e le altre grandi case d’investimento continuano ad additare obiettivi per l’S&P sempre più alti?
Nuova app L’Economia. News, approfondimenti e l’assistente virtuale al tuo servizio.
SCARICA L’ APP
Iscriviti alle newsletter de L’Economia. Analisi e commenti sui principali avvenimenti economici a cura delle firme del Corriere.
12 agosto 2025
© RIPRODUZIONE RISERVATA