È venerdì sera e scrivo questa recensione con una maschera di tessuto in faccia. Nel 2003, anno in cui è uscito Quel pazzo venerdì, non ne avevo bisogno: avevo la pelle liscia, il lettore CD carico, Are You Happy Now di Michelle Branch nelle cuffie, assieme a un mix di pezzi tra rock, R&B e robe “festivalbarose”. La mia vita scorreva senza sapere cosa fosse l’acido ialuronico e questo film.
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L’anno scorso ho fatto una serata nostalgia con la mia coinquilina, estremamente elettrizzata per la commedia che aveva scelto; storco il naso – non sono mai stata una ragazza da Disney Channel – ma mi fido e accetto di passare le prossime ore in leggerezza.
E allora bellocci, il miglior venerdì sera a tutti. Io e una mamy che…
Così succede, ieri, come oggi. Per i fan del primo film di tempo ne è passato più che per me: ventidue anni sono tantissimi, tanto da farmi chiedere, da profana: era davvero necessario un sequel? La risposta è no, ma per fortuna esiste il capitalismo, perché altrimenti non avrei potuto passare un’altra serata a ridere davanti a uno schermo sentendomi un po’ nei primi anni ‘00 e un po’ in un oggi in cui il rischio cringe – come direbbe la Gen Z co-protagonista della pellicola – era altissimo, come sempre, quando si parla di narrazioni intergenerazionali.
Per chi nel 2003 era troppo impegnato a masterizzare CD con canzoni scaricate da eMule per guardare Quel pazzo venerdì, ecco il recap (anche se in quel caso mi chiedo perché stiate leggendo questa recensione, ma va bene così): madre (Jamie Lee Curtis) e figlia (Lindsay Lohan) si scambiano i corpi, proprio prima del matrimonio della prima. Una commedia basata sul romanzo per ragazzi A ciascuno il suo corpo di Mary Rodgers ma che in realtà, ha avuto altri adattamenti: il primo giro risale al 1976 con Tutto accadde un venerdì (Jodie Foster giovanissima e Barbara Harris), poi nel 1995, un film per la TV che oggi probabilmente troveremmo in VHS accanto alle cassette dimenticate di Baywatch. La pellicola del 2003 era già il terzo remake, ma è quella che ha messo il marchio definitivo nell’immaginario pop.
Un fanservice che è service pure per chi non è fan
Quel pazzo venerdì, sempre più pazzo – che in italiano ha il titolo sempre più lungo dell’efficientissimo Freakier Friday originale – è un sequel che ricopia la formula del primo e la raddoppia: gli scambi di corpi sono quattro, le generazioni tre. Una nonna, una madre e due teenager. Un matrimonio da fermare, un lutto da elaborare, una maledizione da spezzare, tra pezzi di Britney Spears e artrosi. È sicuramente un film che fa benissimo quella cosa chiamata fan service: reference, omaggi, cast originale all’appello – e non era scontato, visti gli anni passati – ma che fa divertire anche chi non ha passato gli ultimi 22 anni ad aspettarlo.
Questa volta la formula è più incasinata.
La differenza la fa l’effetto nostalgia, che però mi sento di dire non sia l’emozione principale della pellicola. Nonostante sia un sequel che non cambia assolutamente nulla della sua struttura, non è uno di quelli che respirano solo grazie all’ossigeno della base di fa storica: la storia si regge in piedi pure da sola, senza bisogno di appoggiarsi alla coperta calda dei ricordi. Fa ridere tanto, e poco importa se si sappia già cosa succederà alla fine. Come si dice? L’importante è il viaggio, bla bla bla. Unica nota un po’ meh: il film si regge sulle spalle di Jamie Lee Curtis – non pervenuta Lindsay Lohan, ma magari è solo una mia percezione.
Quel pazzo venerdì, sempre più pazzo è disponibile al cinema.
Quel pazzo venerdì, sempre più pazzo è quella serata leggera che non ti cambia la vita ma ti fa stare bene. È un film che conosce perfettamente la sua ricetta – corpi che si scambiano, gag sulla differenza tra Gen Z e boomer, momenti di “ah, quindi gli altri mi vedono così, ommioddio” – e la cucina, come diceva una nota pubblicità di un ragù: “come lo fai tu, ma più in grande”. C’è il fan service per chi nel 2003 sapeva già a memoria le battute, certo, ma non è una trappola per nostalgici – funziona anche per chi ci arriva vergine di biscotti della fortuna/letture della mano e drammi intergenerazionali. Certo, la prevedibilità è altissima, ma il divertimento non sta nell’epilogo, bensì nel caos del percorso: la cartomante multitasking, la scena nel negozio di dischi sono le cose che mi hanno fatto ridere di più. Non è un sequel necessario, ma è uno di quelli che ti fa pensare “OK, capitalismo, hai fatto bene stavolta”.