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Silvia Calvi e Giampiero Rossi
I racconti e le storie di chi vive nei campi in città (tre riconosciuti, 14 anni fa erano 24). Paolo Steffano, don del Gratosoglio: «Questi sono ragazzini allo sbando, abbandonati a loro stessi»
«Questi sono ragazzini allo sbando, abbandonati a loro stessi, man mano che crescono, sono sempre in giro a fare casino, magari riuniti in bande. Inutile stupirsi, se cresci in questo contesto è difficile prendere un’altra strada, hai bisogno di aiuto». Le parole di don Paolo Steffano grondano amarezza. Lui da prete, responsabile della Comunità pastorale del Gratosoglio — lo storico quartierone popolare dove si è consumata la tragedia di lunedì mattina — conosce la realtà ruvida delle strade di questo estremo Sud metropolitano, in cui le fragilità si sommano e si scontrano. E conosce anche i ragazzini che ogni giorno sgusciano fuori dai campi nomadi che per loro dovrebbero essere «casa».
E infatti, il prete racconta: «In questi anni abbiamo organizzato diverse attività per coinvolgerli: il doposcuola, un corso di ginnastica, il pranzo insieme una volta a settimana, li abbiamo portati anche in campeggio. I ragazzini vengono, partecipano, ma non sono costanti: la cosa difficile è riuscire a tenerli agganciati». E ad ogni fattaccio, compresi quelli che non raggiungono le cronache, «nel quartiere si alimentano scintille di rabbia». E allora diventa difficile anche chiedere e dare solidarietà a quei bambini senza infanzia.
Gli insediamenti
Proprio lì vicino, lungo la sponda sinistra del Naviglio Pavese, sorge il «Villaggio delle rose», nome che vezzeggia il più grande campo nomadi di Milano. È lì, in via Chiesa Rossa, dal 2002 e raccoglie 70 famiglie per un totale 260 persone tra italiani, sinti lombardi, rom harvati, provenienti da Istria e Croazia. Oltre a questo, attualmente in città gli insediamenti riconosciuti sono quelli di via Impastato (periferia Sud-Ovest, al confine con San Donato Milanese), via Negrotto (a Nord-Ovest, a ridosso di Villapizzone e Bovisa). Tre in tutto. Ufficialmente vi abitano 112 famiglie, 416 persone. Perché negli ultimi 14 anni il numero degli insediamenti per nomadi nel capoluogo lombardo (dopo, Roma e Napoli, terza città italiana per presenze) si è costantemente ridotto. Erano 24, punteggiavano la mappa della città e ospitavano almeno 3.000 persone.
Agli atti di Palazzo Marino risulta che l’ultima apertura — cioè proprio il Villaggio delle rose — fu deliberata nella primavera del 1999 (giunta di centrodestra, sindaco Gabriele Albertini). Poi, dal 2011, sono iniziate chiusure e smantellamenti, una ventina di aree, molte delle quali erano occupate da accampamenti abusivi. Che ciclicamente ricompaiono.
Scuola e isolamento
Ma come si svolge la vita all’interno degli insediamenti dove bambini e adolescenti crescono tra caravan, roulotte, container e baracche? «La metà degli abitanti del villaggio di Chiesa Rossa sono minori e vanno a scuola, frequentano l’Istituto comprensivo Arcadia — spiega Paolo Cagna Ninchi, presidente dell’Associazione Upre Roma, nata nel 2009 per promuovere la cultura rom e sinti e il dialogo con le istituzioni —. Una volta c’era uno scuolabus che li portava, ma due anni fa è stato soppresso e, quando non li accompagnano i genitori, i bambini devono percorrere a piedi i due chilometri e mezzo che separano il campo dall’istituto. Non è un piccolo disagio, e anche questo contribuisce a far sentire questi bambini emarginati».
La Caritas
Ma la precarietà li avvolge anche quando sono a «casa». Un’indagine condotta un paio d’anni fa dalla Caritas Ambrosiana riassume in modo impietoso le condizioni di vita nei campi nomadi: spazi ridotti, problemi di igiene, mancanza di servizi, in qualche caso anche dell’accesso all’acqua potabile.
Tra gli adulti, poi, domina la disoccupazione, abbinata a bassi livelli di istruzione, difficoltà ad accedere ai documenti e — non di rado — guai con la giustizia. E tutto questo, probabilmente, contribuisce al dato più impressionante denunciato dalla Caritas: una speranza di vita di 10 anni inferiore alla media nazionale.
Dopo la tragedia
E all’indomani di un fatto come quello di lunedì, il muro della diffidenza si alza ulteriormente. «Siamo di fronte a una doppia tragedia, la morte di una donna innocente e il dramma di quattro bambini che si sono resi responsabili di un atto che segna la loro vita, al di là delle responsabilità penali — osserva ancora Paolo Cagna Ninchi —. Ma amareggia anche che, subito, è stato tirato in ballo chi non c’entra, considerato comunque colpevole in quanto rom, cioè gli abitanti del villaggio di via Chiesa Rossa. Una realtà che oltretutto, dallo scorso giugno, si sta organizzando per diventare un modello anche per le altre città europee». Il progetto è quello di costituirsi cooperativa a proprietà indivisa: le famiglie che non vorranno farne parte accetteranno la collocazione nelle case Sat (servizi abitativi transitori), come previsto dal Comune a partire da settembre. «Le altre dovranno organizzarsi e assumere la gestione dei consumi e della logistica del villaggio, che da settembre sarà ridotto ai confini del 2002, mentre gli spazi occupati successivamente verranno liberati». Ma la grande paura è che, l’ondata di rabbia spazzi via tutto: «Ma questo non è uno spazio abusivo — dice Tony Deragna, rom italiano residente al Villaggio delle rose — anzi, noi in questo progetto abbiamo investito i nostri risparmi».
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12 agosto 2025 ( modifica il 12 agosto 2025 | 23:47)
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