di
Greta Privitera

Al Sharif era il corrispondente di punta di Al Jazeera a Gaza: due milioni di follower seguivano le sue cronache dal campo. L’Onu temeva per la sua vita

Il corteo funebre per i giornalisti uccisi davanti all’Al Shifa Hospital è un fiume di uomini arrabbiati che scorre veloce tra detriti e case malandate. I colleghi, gli amici e i fratelli sorreggono le lettighe con i corpi avvolti nella bandiera palestinese, sulla quale sono adagiati i giubbotti antiproiettile, con la scritta «Press». Tutt’intorno, il cordone dei bambini che saltellano svelti per stare al passo dei grandi. 

La morte di Anas al Sharif e dei cinque reporter è un altro duro colpo per Gaza. Alle 23.22 di domenica, l’esercito israeliano ha bombardato in un raid mirato la tenda-redazione dove si trovava il famoso corrispondente di Al Jazeera, da quasi due milioni di follower. Con lui c’erano anche un altro cronista della tv qatarina, Mohammed Qreiqeh, i cameramen Ibrahim Zaher, Mohammed Noufal, Moamen Aliwa e il fotoreporter Mohammed Al-Khaldi. Per la prima volta, l’Idf ha rivendicato immediatamente il raid, spiegando che Al Sharif sarebbe stato a capo di una cellula di Hamas e avrebbe pianificato attacchi missilistici. 



















































Il portavoce dei militari dice che ci sarebbero documenti che mostrano il collegamento del giornalista con l’organizzazione terroristica. «Elenchi del personale, liste di corsi di addestramento, rubriche telefoniche e pagamenti» di cui mostra alcuni screenshot senza renderli pubblici integralmente. 

Al Jazeera smentisce tutto e accusa il governo israeliano. Parliamo con il capo dei corrispondenti a Gaza, Hani Mahmoud. «Dove sono le prove? Anche gli altri 230 giornalisti uccisi, per Netanyahu, erano affiliati ad Hamas», commenta. «Se dici che Anas è un capo militare devi fornire prove schiaccianti. Vogliono chiudere gli unici occhi rimasti nella Striscia. Anas ne aveva di speciali, era tra i pochi a raccontare il nord devastato». 

Il portavoce dell’esercito condivide anche alcuni selfie di Al Sharif insieme ai leader di Hamas e dei presunti messaggi del giornalista che festeggia il 7 ottobre. Immagini che vengono ripostate centinaia di volte dai sostenitori di Netanyahu. «Una foto vicino a quello che a Gaza è stato un leader politico non è un attestato di affiliazione. E poi: sono foto vere?», commenta Safwat Kahlout, collega di Al Jazeera, prima a Gaza e da un anno in Italia. «Se pensavano che avesse legami con il terrorismo — continua —, avrebbero potuto portarlo davanti a un tribunale». 

Ma i social sono sommersi anche dalle corrispondenze di Al Sharif che nelle ultime settimane documentava la fame della popolazione, dai video dei suoi figli di 15 mesi e quattro anni che gli corrono incontro e da quelli in cui, stremato, piange mente racconta la sofferenza di Gaza. 

Il 31 luglio, Irene Khan, relatrice speciale dell’Onu sulla libertà di espressione, aveva denunciato «gli attacchi online e le accuse infondate dell’esercito che mettono a rischio la vita del giornalista». 

Al Sharif e Al Jazeera sapevano di essere nel mirino di Israele. Il 6 aprile, il cronista aveva scritto un messaggio-testamento da pubblicare in caso di sua morte. È apparso ieri: «Non ho mai esitato a trasmettere la verità così com’è, sperando che Dio fosse testimone di chi è rimasto in silenzio e di chi ha soffocato il nostro respiro». 

Dopo gli attacchi di Hamas del 7 ottobre, Israele ha impedito ai giornalisti internazionali di entrare a Gaza. Domenica Netanyahu ha annunciato un possibile cambio di rotta.

12 agosto 2025 ( modifica il 12 agosto 2025 | 08:43)