Gabriele Segre, direttore della Fondazione Vittorio Dan Segre
Quando arriva la conferma dei piani di Netanyahu per Gaza, smette i panni dell’analista, «perché la risposta non può che essere sul piano umano e politico: umanamente rischia d’essere una catastrofe, dal punto di vista politico non fa che precipitare nella spirale della violenza, l’impossibilità di una via d’uscita che impedisce di cercare e trovare altre strade». Gabriele Segre vive tra Gerusalemme e l’Italia. Studioso di identità e convivenza, dirige la fondazione intitolata al nonno Vittorio Dan Segre, combattente, diplomatico, giornalista, è stato tra i fondatori di Israele. L’accogliente casa gerosolimitana racconta il passato, i sogni, i conflitti di una terra. Laddove cronache familiari e pagine di storia sono inscindibili. Intorno, gli altri edifici di roccia bianca, con le discrete insegne blu poste a ricordare che lì hanno vissuto rabbini, scienziati, studiosi, leader politici, combattenti.
Dalla veranda all’ora del tramonto si osservano i giovani che passano di fretta senza posare lo sguardo sui nomi a cui devono la loro permanenza non solo in questa parte di Gerusalemme. La conversazione era cominciata con un rimprovero: «Nessuna obiezione al riconoscimento dello Stato di Palestina, ma colpisce il paradosso di un Occidente, soprattutto europeo, che sfrutta una situazione drammatica per recuperare un ruolo internazionale che aveva perduto».
Che cosa non è convincente dell’annunciato riconoscimento dello stato palestinese da parte di Paesi come Francia e Regno Unito?
Non contesto il riconoscimento, ma rivela una debolezza: quella di chi, non avendo la forza per incidere sulla crisi, si rifugia nei principi. Un gesto che serve più a placare le proprie contraddizioni morali che a cambiare la realtà. In questo senso, la cautela dell’Italia non è priva di ragioni.
Forse l’urgenza è dettata anche dalla reazione al crimine di Hamas del 7 ottobre fino alle accuse di “genocidio” per Israele?
Continuo ad essere cauto riguardo all’uso della parola “genocidio”, ma per una ragione diversa da quella di chi lo nega a prescindere. Nell’affermare che è in corso un genocidio, prima ancora di averne ottenuto un riconoscimento giuridico secondo la qualificazione che il diritto internazionale impone, rischiamo di alimentare anche la retorica opposta.
La accuseranno di interessata cautela lessicale…
Se le Corti internazionali non riconoscessero l’esistenza del genocidio, pur condannando i crimini di guerra, allora ci sarà chi tenterà di ridimensionare la portata del dramma di Gaza, e chi magari si sentirà autorizzato a ripetere crimini della stessa intensità, perché a quel punto non sarà accusato di “genocidio”. Sarebbe come se i “bagni di sangue” venissero poi ritenuti un po’ meno inaccettabili, meno gravi. Quello che succede è una tragedia umana e morale che non può restare prigioniera di una parola e della sua strumentalizzazione, in un verso o nell’altro. Dobbiamo fare di tutto per non concedere alibi, e fermare quanto prima l’orrore.
Che cosa ha di diverso questa guerra rispetto a quelle del passato?
È per questa terra un’esperienza traumatica senza precedenti. Per intensità, per durata, per i suoi risvolti politici, etici, culturali. Per la società israeliana e per quella palestinese sarà un punto di svolta permanente, perché modificherà l’identità stessa di Israele e della Palestina, e chiamerà in causa quella dell’ebraismo mondiale. E questa è una responsabilità che i protagonisti del conflitto si sono presi. In questo senso possiamo dire che Hamas ha ottenuto una vittoria.
In che misura?
È riuscita a stravolgere l’equilibrio non soltanto politico-militare, ma anche della conversazione pubblica sul conflitto. C’è una responsabilità grave della comunità internazionale, che per anni ha accettato lo “status quo” come equilibrio sufficiente, senza capire che prima o poi ci sarebbe stato un momento di rottura devastante. Ma c’è una responsabilità maggiore di Israele e degli israeliani, così come dei palestinesi e delle autorità palestinesi riconosciute. C’era chi pensava di poter tenere la situazione com’era, illudendosi che si potesse continuare a vivere senza affrontare i contrasti e le contraddizioni da un punto di vista politico. Come se si potesse andare avanti così per sempre. Quello che è accaduto dal 7 ottobre dimostra l’errore.
Come venirne fuori?
Prima di tutto bisogna chiedersi: quando. E la risposta è che ci vorrà molto tempo. Non si tornerà al mondo di prima del 7 ottobre: la storia, qui, è cambiata per sempre. Israeliani e palestinesi dovranno fare i conti con una nuova realtà. La guerra a Gaza ridefinirà le loro identità, ma oggi è impossibile prevedere come e con quali esiti. Quel che è certo è che una soluzione resterà lontana finché il conflitto continuerà a caricarsi di simboli che vanno ben oltre la guerra in corso. I palestinesi sono diventati emblema delle lotte contro le ingiustizie globali, spesso a scapito di una soggettività politica autonoma. Israele è stato identificato per decenni come baluardo dell’Occidente. Così, lo scontro tra due popoli si è trasformato in uno scontro tra significati universali. Un carico insostenibile e ingiusto, per entrambi.
Gli atteggiamenti e i sentimenti che tracimano nell’antisemitismo sono però diventati cronaca quotidiana.
L’antisemitismo non è scomparso: assume forme nuove, ma resta un pregiudizio radicato. Spesso la critica a Israele finisce per alimentarlo, anche involontariamente, e il confine tra dissenso politico e odio antiebraico diventa sottile e pericoloso. Israele è nato anche con la missione di proteggere gli ebrei ovunque nel mondo, non solo con le armi, ma con la forza delle idee, della cultura e della moralità. Le sue scelte non riguardano solo la sicurezza nazionale: incidono sulla condizione e sull’immagine degli ebrei a livello globale. Per questo Israele ha una responsabilità morale in più: non offrire alcun alibi all’odio e al pregiudizio. E oggi, su questo piano, sta fallendo la sua missione.