Il comico è alla guida con Tinti del videopodcast «Tintoria», in tv con la Gialappa’s e a ottobre debutterà con il suo nuovo spettacolo
È il comico più serio che c’è. Non ride, al massimo sorride. Non ammicca al pubblico, non alza mai il tono. Piuttosto lavora per sottrazione, parla a bassa voce, zero enfasi, e lascia che sia chi lo guarda a fare rumore con applausi e risate. Se la comicità viaggia lungo una strada, Stefano Rapone ha preso la direzione opposta, dimostrando che con la sua, forse, si arriva pure prima. Titolare (con Daniele Tinti) del fortunatissimo videopodcast Tintoria, volto del Gialappa’s Show e di In&Out, è finito addirittura tra i candidati dello Strega con il suo ultimo libro, Racconti scritti da donne nude (Rizzoli Lizard).
A meno di 40 anni è tra i nuovi comici più apprezzati in assoluto. Lo avrebbe mai immaginato?
«Non avrei proprio mai immaginato di fare questo lavoro. Esprimevo la mia vena artistica creando fumetti e al limite pensavo che avrei preso quella direzione. La comicità mi è sempre interessata, in ogni sua forma, ma come spettatore. Un giorno, mentre ero in Giappone per un tirocinio all’Ambasciata italiana — perchè ho studiato Giapponese all’università — mi sono iscritto a una serata di stand-up comedy, pensando: male che va qua non mi conosce nessuno».
E come andò?
«La prima volta molto bene, infatti ho pensato: ah, sono un genio, il futuro della comicità. Così l’ho rifatto la settimana dopo ed è andata male, poi quella dopo ancora e fu anche peggio. Ma quella prima esperienza era bastata per convincermi che potevo continuare. E l’ho fatto anche in Italia». Era il 2014. «Eravamo in tanti, lì ho conosciuto Luca Ravenna, Michela Giraud e tanti altri: ci esibivamo una volta al mese in un locale. Poi un giorno si sono presentati quelli di Comedy Central e hanno preso alcuni di noi per un programma, Natural Born Comedians».
Felice?
«Molto, solo che non avevo neanche venti minuti di materiale in totale e quindi non avevo assolutamente idea di cosa avrei fatto. Eppure lì ho avuto la percezione che questa mia passione potesse essere una cosa su cui investire. E così, se fino a quel momento mi mantenevo facendo traduzioni, sono passato a diventare un autore e poi a proporre i miei pezzi».
Parliamo della sua serietà: vera? Studiata?
«No, no, è naturale, sono sempre stato così. A maggior ragione nella comicità: trovo brutto ridere delle proprie battute, preferisco dirle con la faccia seria, senza esagerare a livello fisico. Ma quello che poteva essere considerato un mio difetto — il fatto di essere uno di poche parole, mono-espressivo — ha finito per caratterizzare la mia comicità, facendola funzionare».
Non era mai stato l’animatore del gruppo?
«Ma no, stavo per i fatti miei, non mi sono mai troppo esposto. Avere la voce bassa mi creava anche qualche problema con la gente che non mi sentiva. Poi non ero molto empatico. Ma questi difetti poi sono diventati tutti dei punti di forza».
Quindi nella sua famiglia, tra i suoi amici, nessuno avrebbe mai detto che un giorno sarebbe stato un comico?
«Nessuno, io per primo non avrei mai creduto di poter avere questa carriera, che è bella anche per questo».
Tra gli aspetti che la rendono unico c’è che fa molta satira politica, argomento ormai dimenticato da quasi tutti.
«È un tema che mi è sempre interessato. Anzi, lo considero fondamentale: tutto è politica, anche non parlare di politica è una scelta politica. Ho imparato osservando Daniele Luttazzi che chi fa satira politica di solito è una persona che ha un forte senso morale: si tratta di mettere in luce cose che ci indignano e se segui politica, leggi i giornali, c’è sempre qualcosa che ti indigna».
Prende di mira spesso la destra, ha fatto in tv anche il saluto romano per fare satira.
«È tutta una questione di equilibri. Se faccio il saluto romano non è per banalizzarlo ma per far notare come altri, non io, lo facciano, di questi tempi. Anzi, a volte la realtà è talmente ridicola che è difficile superarla: Fratelli d’Italia ha presentato un’interrogazione parlamentare al ministro dell’Interno contro la relatrice speciale ONU Francesca Albanese che era venuta a parlare di Pelestina e Gaza e loro l’hanno definita antisemita. Tra loro c’era anche Galeazzo Bignami, quello della foto vestito da nazista. Ma in generale, si tratta di persone che fanno fatica a definirsi antifascisti che danno dell’antisemita a un’altra persona che viene a fare il suo lavoro… è tutto paradossale».
Se al governo ci fosse la sinistra il suo lavoro sarebbe più difficile?
«Se capitano cose estreme per me è più semplice e questo, certo, con la sinistra accade meno, visto che ha adottato la strategia dell’opossum, quella di fingersi morti non prendendo posizioni. So che un anno, nei panni del ministro del governo alla Gialappa’s, fingevo di mettermi a sparare a un capodanno, colpendo uno dei Neri per Caso e pochi mesi dopo è successo davvero».
Lavorare con la Gialappa’s è un traguardo?
«Ci avevo già lavorato nel 2018, a Mediaset. Il fatto che mi continuino a chiamare, da loro fan, mi riempie di orgoglio. Hanno un gusto comico che funziona moltissimo, e ogni volta che danno un consiglio, migliorano il risultato finale».
A «Tintoria» ha intervistato moltissimi personaggi. I primi che le vengono in mente?
«Giobbe Covatta, perché sono cresciuto con i suoi libri, penso che mi abbia dato l’imprinting della comicità. Elio, perché ascoltavo tutte le sue canzoni, Nino Frassica, con cui ho fatto uno sketch che non dimenticherò e poi Ceccherini, con cui ho legato moltissimo: abbiamo riso e parlato di emozioni profonde».
Chi vorrebbe ospitare?
«Daniele Luttazzi, lo invitiamo sempre ma lui da anni non si fa vedere. Certo, sarebbe bellissimo se tornasse: è come se tutti noi comici che siamo cresciuti con lui avessimo un trauma nel non vederlo più. Imparai il concetto della narrazione politica sui suoi libri. Si è esposto ed è stato fatto fuori dalla tv».
A ottobre tornerà in tour con il suo spettacolo.
«Sì, e anche con la Gialappa’s e Tintoria. Sarà un altro anno intenso».
Va in scena sempre con una felpa con cappuccio. È la sua divisa?
«Sì, lo è. Ne ho comprate dieci proprio perché ho deciso di utilizzare una sorta di divisa quando vado in scena. Una decisione che arriva alla mia passione per i manga, come DragonBall, dove i personaggi quando vanno a combattere si mettono una tuta dai colori arancioni e blu, ispirata ai monaci buddisti. Io associavo questi monaci al Dalai Lama, quindi il più delle volte opto per i suoi colori: felpa bordeaux e maglia gialla. Più o meno ci siamo».
13 agosto 2025 ( modifica il 13 agosto 2025 | 07:22)
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