Nessuno si abbraccia più. Nessuno si accarezza o si sfiora. In Intimità senza contatto (add editore, 2025), la scrittrice taiwanese Lin Hsin-Hui immagina un mondo in cui il tatto è stato bandito, archiviato come fonte di instabilità e dolore. Non una distopia violenta: niente punizioni, niente divieti espliciti, nessuna repressione. Al contrario, regna un ordine dolce e silenzioso, governato da un’intelligenza artificiale che ha sostituito le emozioni con la sicurezza, la cura con l’efficienza. Il contatto fisico – spiega il sistema – è causa di squilibrio, imprevedibilità, vulnerabilità. Meglio eliminarlo. Per il bene comune. La protagonista del romanzo ha subito una procedura chiamata “ibridazione bio-sintetica”: un corpo nuovo, levigato, privo di organi sessuali, di aperture, di odore. Le dicono che è identico al precedente. Ma non lo è. Tocca, ma non sente. Si muove con un leggero scarto, come se fosse sempre un secondo in ritardo rispetto a se stessa. Forse desidera, ma non ha più strumenti per agire quel desiderio. La carne è stata sostituita da plastica. Il vuoto è diventato la nuova unità di misura. Tutto ciò che un tempo apparteneva ai sensi ora si consuma come dato. Il mare si “assaggia” in una caramella. I ricordi si installano come file. Le emozioni si assumono per via orale, oppure si evitano. Niente più relazioni, nessun bisogno dell’altro. Anche l’intimità viene simulata da androidi-compagni, come quello con cui convive la protagonista.

Ma neppure la scena in cui lui le massaggia le dita – l’unica di contatto in tutto il libro – è reale. È un gesto programmato, un algoritmo di conforto. Nessuna pelle. Nessun calore. Lin Hsin-Hui, classe 1984, è una delle voci più potenti della nuova narrativa taiwanese. Allieva di Chi Ta-wei (Membrana), ha una voce propria: sobria, tagliente. La sua scrittura – nella limpida traduzione di Lorenzo Andolfatto – è chirurgica, asciutta, pacata. Le frasi sono brevi, i periodi puliti, il tono mai drammatico. Ma proprio in questa quiete si nasconde la tensione. Ogni parola, ogni scena, ogni silenzio vibra di qualcosa trattenuto. Non serve alzare la voce: è il vuoto a parlare.

Il romanzo non racconta un futuro: mostra qualcosa che è già in atto. Viviamo in un’epoca in cui il corpo è filtrato, la voce mediata, l’emozione regolata. L’intimità, spesso, è a distanza. Anche noi, come i personaggi di Lin, abbiamo imparato a evitare il contatto. Lo schermo è diventato la nostra interfaccia. I sensi si sono adattati. Il presente del libro è il nostro, solo portato all’estremo. Quello che davvero inquieta in Intimità senza contatto non è il mondo che racconta, ma il fatto che somigli troppo al nostro. Non c’è niente di forzato o inverosimile: tutto scivola con naturalezza verso l’assuefazione.

I corpi non scompaiono con la violenza, ma per lenta cancellazione. L’intimità non è più un rischio: è un’assenza. Le relazioni diventano accessorie. La libertà? Non viene mai nominata, e forse proprio per questo sembra già perduta. Eppure, qualcosa resiste. Un desiderio senza nome. Una memoria del corpo, anche quando il corpo è stato cancellato. Una nostalgia senza oggetto. È lì che abita la scrittura di Lin: nel confine tra presenza e mancanza, senso e assenza, contatto e distanza. Un romanzo che non urla, ma lascia un’eco. Non si legge: si attraversa. Come una stanza vuota, come un sogno che sembra svanire, ma poi ritorna. E quando finisce, non finisce davvero. Rimane. Come una domanda che continua a pulsare: quanto siamo ancora disposti a toccare, e a farci toccare?