Nel conto alla rovescia al summit in Alaska, in un coro di voci – speranzose, preoccupate, indignate – che ne discutono tra Kyiv, Bruxelles e Washington, Mosca mantiene uno strano silenzio. È vero che i talk show propagandistici hanno introdotto la nuova formula «i piani per concludere l’operazione militare speciale», un eufemismo per «la fine della guerra», saggiando la reazione dell’opinione pubblica a questa prospettiva (alternandola però ad accuse ai «nazisti europei» lanciate dalla portavoce della diplomazia russa). È vero che gli attacchi aerei ai civili ucraini sono diventati meno intensi, rispetto all’escalation violenta delle settimane precedenti (ma potrebbe essere dovuto anche a una pausa nei rifornimenti di missili e droni). È vero che Vladimir Putin ha passato ore al telefono con i leader dei Brics, ma si è astenuto dai proclami bellicosi in chiave anti-occidentale. Mentre però tutti gli altri protagonisti stanno calando le loro carte, tracciando le proprie “linee rosse” e facendo capire i potenziali margini di compromesso, il dittatore russo si trattiene dalla tentazione di esternare su un vertice che ha sognato per anni.

L’analisi

Le purghe di Putin: lo Zar ha bisogno della guerra per liberarsi dei vecchi oligarchi

Anna Zafesova

11 Agosto 2025

I motivi di questa prudenza si possono forse rintracciare nelle ultime dichiarazioni del presidente americano, che invece è stato molto loquace rispetto alle sue aspettative. Dopo aver insistito in diverse occasioni su uno «scambio di territori» – concetto che richiederebbe una precisazione, visto che, come nota Volodymyr Zelensky, si tratterebbe di «barattare territori ucraini con altri territori ucraini» – Trump ha parlato di una «zona di costa oceanica» dell’Ucraina, e spiegato che i russi nel febbraio 2022 avrebbero potuto «arrivare a Kyiv in quattro ore», se non fosse stato per colpa di un non meglio precisato generale russo che avrebbe diretto i carri armati nei campi, invece di prendere l’autostrada. Per chi si ricorda ancora la colonna di mezzi corazzati russi che si era dipanata lungo la strada per la capitale ucraina per ben 60 chilometri, Trump ha offerto un’altra scoperta, stavolta storica: la Russia «non perde mai le guerre», come gli avrebbe spiegato Viktor Orban.

Dichiarazioni che sono sintomatiche sia dell’enorme fortuna di Putin a essersi ritrovato alla Casa Bianca un uomo che parla come il conduttore di un telegiornale moscovita, sia della difficoltà di concludere con lui un accordo da mostrare non soltanto alle telecamere. A giudicare dalla girandola di indiscrezioni che si escludono a vicenda, l’inviato americano Steve Witkoff in realtà non ha portato da Mosca nessun piano preciso, fraintendendo probabilmente anche alcune proposte di Putin che gli sono sembrate delle concessioni. Per ora, l’unico risultato del vertice sembra il fatto stesso del vertice, e l’impressione è che al Cremlino si viva con il fiato sospeso, attenti a non soffiare su una iniziativa diplomatica fragile come un castello di carte.

Per Putin è vitale già il fatto stesso del summit, per di più in Alaska, un tempo colonia degli zar, un ricordo della grandezza imperiale russa.

A differenza di Trump, il dittatore russo non ha mai promesso la pace, e non ha fretta di concluderla, quindi rischia meno una delusione. Per il padrone di casa invece, secondo il politologo russo in esilio Aleksandr Baunov, «sarebbe imbarazzante andarsene con un nulla di fatto, e potrebbe cascare in una trappola di Putin». Il Cremlino aveva già proposto agli Usa diverse “carote” dei dossier bilaterali, dallo sfruttamento congiunto dell’Artico all’estrazione delle terre rare e l’acquisto dei Boeing di cui la Russia ha un disperato bisogno. Se poi non riuscisse a distrarre Trump dall’Ucraina, potrebbe sorprenderlo con la «tregua aerea» di cui si parla tanto a Mosca, una mossa che permetterebbe alla Casa Bianca di dichiarare di aver interrotto la strage di civili nelle città ucraine (e di non dover più mandare a Zelensky i missili per la contraerea).