«Nella sfera di cristallo vedo amore, avventura, guadagni. Vedo quegli album, li vedo scalare le classifiche. Li vedo superare i vecchi Def Leppard, i Kris Kross. Persino Weird Al Yankovic… no, aspetta un attimo. Stiamo scivolando. Stiamo perdendo posizioni nelle classifiche. Stiamo andando giù, giù, nell’oscurità…».
Era il 5 giugno e Bruce Springsteen dopo avere suonato Glory Days, verso la fine di una trasmissione radiofonica dal vivo da uno studio di registrazione di Los Angeles, commenta il tanto strombazzato fallimento commerciale dei suoi ultimi album, Human Touch e Lucky Town, che non sono riusciti a sbancare le classifiche come alcuni dei loro predecessori. Fortunatamente Springsteen dimostra che, pur avendo perso un po’ del suo appeal commerciale, non ha perso il suo senso dell’umorismo.
Lo show, davanti a circa 250 ospiti fra invitati e vincitori di un concorso radiofonico, è una prova generale per presentare la sua nuova band (il tastierista Roy Bittan, il chitarrista Shane Fontayne, il bassista Tommy Sims, il batterista Zachary Alford, la cantante e chitarrista Crystal Taliefero e i vocalist Bobby King, Gia Ciambotti, Carol Dennis, Cleo Kennedy e Angel Rogers) e per promuovere il suo tour estivo negli Stati Uniti. È un successo su entrambi i fronti. Il concerto ha dimostrato che, anche senza la E Street Band, Springsteen è sempre un ottimo artista; infatti, il suo nuovo gruppo è più rock e musicalmente lo spinge a dare di più, rispetto alla band precedente. E che ha ancora molti fan fedeli: il giorno dopo la trasmissione radiofonica sono stati volatilizzati i biglietti di 11 concerti alla Brendan Byrne Arena del New Jersey (più di 200.000 biglietti) in due ore e mezza appena.
Ciononostante, è stato un periodo insolitamente difficile per Springsteen. Anche se Human Touch e Lucky Town sono entrati in classifica, rispettivamente al secondo e terzo posto, sono rapidamente scivolati verso il basso fino a uscire dalla Top 40. Inoltre, alcuni settori dei media sembravano godere per il relativo fallimento di Springsteen (in effetti è un insuccesso relativo: entrambi gli album hanno venduto più di un milione e mezzo di copie). Una rivista, Entertainment Weekly, ha persino piazzato Springsteen in copertina con il titolo “Che fine ha fatto Bruce?”.
Ma le cose potrebbero andare peggio, e Springsteen lo sa bene. Negli ultimi anni ha combattuto una battaglia molto più dura: cercare di ricostruire una vita personale ormai gravemente compromessa. «Ero bravissimo nella musica», dice, «e pessimo in tutto il resto». Sul palco, ovviamente, era in grado di fare tutto; fuori dal palco, invece, era tutta un’altra storia. Di indole piuttosto solitaria, aveva difficoltà a mantenere qualsiasi tipo di relazione duratura. Anche se predicava i valori della “comunità”, durante il suo tour per Born in the U.S.A., manteneva le distanze praticamente da tutti. E quando non lavorava, non era felice.
Quando, nel 1988, è partito per il tour promozionale di Tunnel of Love, hanno cominciato a vedersi le prime crepe nella vita privata di Springsteen. Il suo matrimonio con l’attrice Julianne Phillips aveva iniziato a deteriorarsi e, grazie ai tabloid, è diventato presto di dominio pubblico la relazione con la cantante della E Street Band, Patti Scialfa. E alla fine del 1988, con la fine del tour dopo una serie di concerti per Amnesty International, Springsteen era arrivato a toccare il fondo. A piccoli passi, ha iniziato a riprendere il controllo della sua vita. È andato in analisi, ha divorziato da Phillips e alla fine ha sposato Scialfa. Ha lasciato la E Street Band. Ha lasciato il New Jersey e si è trasferito a Los Angeles. E con Scialfa ha avuto due figli: Evan James, che ha quasi due anni, e Jessica Rae, nata lo scorso Capodanno.
Le vicissitudini personali di Springsteen sono documentate in Human Touch; il superamento di quelle prove è il tema di Lucky Town. Non è ancora chiaro se il suo tour negli Stati Uniti, che partirà il 23 luglio nel New Jersey, riuscirà a riportare in auge quegli album. Ma è indubbio che lui ora è più felice che mai.
Nel corso di tre lunghe interviste fra Los Angeles e New York, le prime così approfondite dal 1986, ha descritto in modo molto dettagliato quella che definisce «la più grande battaglia della mia vita» e ha toccato una serie di altri argomenti, dalla musica rap alla corsa alla presidenza.
La scena musicale è cambiata molto, dall’ultima volta che hai pubblicato un album. Nel panorama attuale dove ti collochi?
In un certo senso, mi sono sempre sentito fuori posto. Negli anni ‘70 la musica che scrivevo era piuttosto romantica, molto ingenua, e di sicuro non c’entrava con quello che si faceva in quel particolare periodo. Negli anni ‘80 scrivevo e cantavo di ciò che succedeva alle persone che vedevo intorno a me o della direzione in cui vedevo andare il Paese. E nemmeno quella roba era in sintonia con i tempi.
A giudicare dal successo della tua musica, penso che ti sia inserito piuttosto bene negli anni ‘80.
Eravamo popolari, ma non è la stessa cosa. Io cerco solo di scrivere musica che abbia un significato per me, che nasca dall’impegno e dalla passione. E penso che se ciò che scrivo è vero ed è emozionante, allora ci sarà qualcuno che vorrà ascoltarlo. Non so se sarà un pubblico più ampio o più ristretto rispetto a quello che ho avuto finora. Ma questa roba non mi ha mai interessato particolarmente. Ho una storia da raccontare e sono solo a metà.
Però i tuoi nuovi dischi non hanno avuto il successo di classifica che molti si aspettavano e sei stato oggetto di critiche da parte dei media. Cosa ne pensi?
Cerco di non farci caso. Sembra che sia qualcosa che accade un po’ a tutti, ma non la prendo sul personale. Se stai per un po’ di tempo a Los Angeles, lo vedi succedere spesso, tipo: «Grandissimo, hai avuto un successo straordinario! Adesso però hai fallito!». C’è in ballo tutto un gioco mediatico lì, immagino sia qualcosa che aiuta a vendere giornali e riviste. Ma non è importante per chi sono o per quello che faccio. Penso che devi fare la tua musica e poi cercare di trovare un pubblico che la apprezza.
Credi che un adolescente a cui piacciono il rap o l’heavy metal potrebbe essere interessato ai tuoi nuovi dischi?
Non saprei. E non so neppure se si può generalizzare in questo modo. Penso che per alcuni potrebbe funzionare e per altri no. Tutto quello che posso fare è pubblicare la mia musica. Non posso creare qualcosa che non mi sembri sincero. Non scrivo in base a dati demografici. Non scrivo una canzone per arrivare a certe persone o ad altre. Ovviamente mi interessa avere un pubblico giovane. Mi interessa chiunque apprezzi ciò che faccio. E quello che ho da dire è: «Sono cresciuto così. Magari ha una qualche importanza. Questi sono i posti in cui sono stato e queste sono le cose che ho imparato». Voglio cantare chi sono adesso. Voglio salire sul palco e cantare facendo sentire tutti i 42 anni che ho. Quando ero giovane, dicevo sempre che non volevo finire a 45 o 50 anni a far finta di averne 15, 16 o 20: non mi interessava. Sono un musicista da sempre e continuerò a suonare per sempre. Non riesco a immaginare un momento in cui non sarò più su un palco, da qualche parte, a suonare la chitarra a tutto volume, mettendoci forza e passione. Non vedo l’ora di farlo a 60 o 65 anni.
Per la prima volta da una ventina d’anni a questa parte stai facendo un tour senza la E Street Band. Cosa ti ha fatto decidere di separarti da loro?
Alla fine del tour per Born in the U.S.A. e dopo aver pubblicato l’album dal vivo, ho capito che quella era la fine della prima parte del mio viaggio. E comunque per il tour di Tunnel of Love avevo già rimaneggiato molto la formazione della band per portare un po’ di novità. Ma poi capita di arrivare a un punto in cui si ricomincia a ripetere sempre lo stesso rituale e la nostalgia prende il sopravvento. Quindi ho deciso che era ora di cambiare. Dovevo solo lasciarmi un po’ andare per poter introdurre qualcosa di nuovo. Volevo liberarmi delle solite aspettative trite e ritrite. La gente ormai veniva ai miei concerti aspettandosi di ascoltare Born to Run o cose che avevo scritto 15 o 20 anni prima. Invece volevo arrivare a un punto in cui, se qualcuno veniva a sentirmi, doveva avere la sensazione che sarebbe stato qualcosa di diverso.
Hai chiamato tu personalmente tutti per comunicare la cosa?
Certamente. Qualcuno è rimasto sorpreso, altri non troppo. Sono certo che qualcuno si è anche arrabbiato. Ma col passare del tempo le cose si sono sistemate per il meglio. Insomma, non ero più il tizio che staccava l’assegno con la paga a fine mese. All’improvviso ero solo Bruce e alcune amicizie si sono evolute da lì. È stato interessante, perché non avevamo mai avuto un rapporto del genere. Lavoravamo insieme da così tanto tempo che non avevamo mai coltivato un rapporto che non fosse lavorativo.
Hai dichiarato che il tour di Born in the U.S.A. ha segnato la fine di una fase della tua carriera. Quell’album e quel tour enormi come hanno impattato su di te?
Ho apprezzato molto il successo di Born in the U.S.A., ma alla fine della fiera mi sentivo un po’ “Bruce-iato”. Mi dicevo: «Basta così». Perché finisci per creare una specie di icona che alla fine ti schiaccia.
Ti riferisci a qualcosa in particolare?
Be’, per esempio, l’immagine che mi era stata data, e che certamente ho contribuito a promuovere, mi ha sempre fatto pensare: «Ehi, ma quello non sono io». Insomma, il machismo non è mai stato nelle mie corde. Forse ne soffro un po’ più di quanto io pensi, ma da bambino ero davvero molto gentile ed ero più sensibile a quel genere di cose. È divertente, sai: penso che dopo che hai creato qualcosa, alla fine l’unica cosa che puoi fare è distruggerla. Quando ho scritto Tunnel of Love, ho pensato che dovevo reinventarmi come cantautore, in una veste più dimessa. Ed è stato un sollievo. Poi sono arrivato a un punto in cui ho dovuto accantonare alcune cose, e in parte è dovuto al fatto che sono venuto qui a Los Angeles a fare musica con persone diverse per vedere come andava, vivendo per un po’ in un posto differente.
Com’è la vita qui rispetto al New Jersey?
Los Angeles offre molto anonimato: non sei il pesce grosso in uno stagno piccolo. La gente ti saluta e ti dice ciao, ma praticamente puoi farti gli affari tuoi. Invece nel New Jersey mi sentivo come Babbo Natale al Polo Nord (ride).
In che senso?
Come posso spiegarmi… tante persone pensano che tu sia come ti immaginano loro e ci vuole sempre un po’ di tempo per metabolizzarlo. Però è peggio quando credi di essere come tu stesso ti immagini. Negli ultimi tre o quattro anni, mi sono davvero liberato di queste cose.
Da giovane volevo vivere la mia vita come se fosse un film, scrivendo la sceneggiatura e facendo combaciare tutti i pezzi. E l’ho fatto per molto tempo. Ma puoi anche diventare schiavo del tuo stesso mito o della tua immagine, per così dire. Ed è già abbastanza brutto che gli altri ti riducano a quello, ma se lo fai tu stesso è molto peggio. È patetico. Quando ho iniziato a frequentare Patti, ho capito che dovevo smettere di scrivere questa sceneggiatura. Non funziona.
È allora che ho capito che avevo bisogno di cambiare. Mi piace l’Ovest. Mi piace la sua geografia. Los Angeles è una città divertente, ma in mezz’ora puoi andare in montagna, in posti dove nell’arco di 150 chilometri c’è un solo negozio. Oppure ti trovi nel deserto, dove nel raggio di 800 chilometri ci sono cinque città.
Così io e Patti siamo venuti qui, abbiamo messo su casa, abbiamo avuto dei figli e… il fatto è che mi ero davvero perso una parte importante della mia vita. Avere successo in un settore è illusorio: la gente pensa che, siccome sei bravo in una certa cosa, allora lo sei bravo in tante altre. E quasi sempre non è così. Sei bravo in quella cosa in particolare, e il pericolo è che quella cosa ti faccia allontanare da tutto il resto della tua vita. Col passare del tempo, mi sono reso conto che stavo gestendo bene il mio lavoro sotto molti aspetti, ma ne stavo anche abusando. E quando avevo poco più di 30 anni ho davvero capito che qualcosa non andava.
Quindi una decina d’anni fa…
Sì, quando sono tornato dal tour di The River. Avevo avuto più successo di quanto avrei mai potuto immaginare e avevamo suonato in tutto il mondo. Così ho pensato: «Wow, è fatta». E mi sono detto: «Ok, voglio una casa». Quindi mi sono messo a cercarne una. Sono andato avanti per due anni e non ci sono riuscito. Probabilmente ho visitato due volte tutte le case dello stato del New Jersey, ma non ne ho comprata manco una. Ho pensato che, semplicemente, non riuscivo a trovarne una che mi piacesse. Poi ho capito che il problema non era che non riuscivo a trovarne una, ma che non riuscivo a comprarla. Posso trovarla, ma non comprarla. Maledizione! Perché?
Allora ho iniziato a cercare una spiegazione. Perché mi sentivo bene solo quando ero in viaggio? Perché tutti i personaggi delle mie canzoni erano sempre in macchina? Quando avevo 20 anni pensavo: «Quello che entra in questa valigia e in quella custodia per chitarra da mettere sul bus è tutto ciò di cui ho bisogno, ora e per sempre». Ci credevo davvero. E ho vissuto davvero così. Per molto tempo.
In una cover story Rolling Stone del 1978, Dave Marsh ha scritto che eri così devoto alla musica che era impossibile immaginarti sposato, con dei figli o una casa…
In tanti hanno detto la stessa cosa. Ma poi qualcosa ha iniziato a cambiare: non mi sembrava giusto. Era deprimente. Tipo: «Questo è tutto uno scherzo. Ho fatto tanta strada e alla fine c’è una fregatura».
Non volevo diventare uno di quei tipi che sanno scrivere musica e raccontare storie e hanno un impatto sulla vita delle persone, e magari sulla società, ma non sono in grado di comprendere se stessi. Ma quella era più o meno la mia storia. Tendo a isolarmi per indole. E non è una questione di soldi, di dove vivi o di come vivi. È una faccenda psicologica. Mio padre era sicuramente così. Non ti servono un sacco di soldi e muri intorno alla tua casa per rimanere isolato: conosco un sacco di persone che vivono isolate con solo una confezione da sei birre e un televisore. Ed era una grossa componente della mia natura.
Poi è arrivata la musica e mi ci sono attaccato: era il modo per combattere quella parte di me stesso. Era una maniera per parlare con le persone. Mi ha fornito un mezzo per comunicare, un mezzo per inserirmi in un contesto sociale, cosa che tendevo a non voler fare.
La musica faceva queste cose, ma in modo astratto, in definitiva: funzionava per il ragazzo con la chitarra, ma quello senza chitarra era più o meno sempre lo stesso.
Ora capisco che due dei giorni più belli della mia vita sono stati quello in cui ho preso in mano la chitarra e quello in cui ho imparato a posarla. Qualcuno mi ha chiesto: «Come hai fatto a suonare per così tanto tempo?». Ho risposto: «Questa è la parte facile. Smettere è difficile».
Quando hai capito come mettere giù la chitarra?
Abbastanza di recente. Praticamente ero caduto in preda a una frenesia che mi forniva una concentrazione enorme, tanta energia e fuoco, perché nasceva dalla pura paura, dal disprezzo e dall’odio per me stesso. Salivo sul palco ed era difficile fermarmi: ecco perché i miei concerti erano così lunghi. Non duravano tanto perché dietro c’era un’idea o una motivazione. Il fatto era che non potevo fermarmi finché non mi sentivo esaurito, punto. Completamente esaurito.
È buffo, perché per gli altri era una cosa positiva, ma per me entrava in gioco una componente di dipendenza: in pratica, era la mia droga. Così ho iniziato a seguire un percorso graduale per smettere.
Per molto tempo sono riuscito a ignorare la faccenda. Avere 19 anni, essere su un furgone e percorrere il Paese avanti e indietro, e poi averne 25 ed essere in tour con la tua band sono cose perfettamente adatte alla mia personalità. Per questo sono riuscito a fare bene. Ma poi sono arrivato a un’età in cui ho cominciato a sentire la mancanza della mia vita reale, o a capire che c’era un’altra vita da vivere. È stata quasi una sorpresa. Prima pensi di viverla. Hai una serie di fidanzate diverse e a tutte dici: «Cavolo, mi dispiace, ora devo andare». Era come il numero comico di Groucho Marx… è buffo, perché nella mia famiglia è un po’ così e ci ritroviamo spesso in questa situazione: «Salve, sono venuto a dire che mi piacerebbe restare, ma devo proprio andare». E io ero così.
Da cosa hai capito che ti mancava qualcosa o avevi un problema?
L’infelicità. E altre cose, come per esempio le mie relazioni. Finivano sempre male; non sapevo davvero come avere una storia con una donna. Poi mi chiedevo: «Perché ho tutti questi soldi e non posso spenderli?». Fino agli anni ‘80 non avevo nulla. Quando abbiamo iniziato il tour di The River, avevo circa 20.000 dollari, credo. Quindi, in realtà, intorno al 1983 per la prima volta ho avuto dei soldi in banca. Ma non potevo spenderli, non potevo divertirmi. Così molte cose hanno iniziato a non sembrarmi logiche. Ho capito che c’era un meccanismo aberrante. E non mi sentivo bene. Una volta fuori dal contesto dei tour e del mio lavoro, mi sentivo perso.
Sei mai andato in analisi o hai cercato aiuto per questo problema?
Oh, sì. Ero molto giù. Per un po’ sono stato davvero male. È successo che tutte le mie risposte rock’n’roll si erano sono dissolte. Allora ho capito che l’idea che avevo da giovane, ossia dedicarmi alla musica con un fervore di tipo religioso, andava bene fino a un certo punto, perché poi finisce per ritorcersi contro di te. Si imbocca un sentiero oscuro e si arriva a deformare anche le parti migliori delle cose. Io ero giunto a un punto in cui sentivo che la mia vita era distorta. Amo la mia musica e volevo darle la giusta importanza. Non volevo cercare di distorcerla per farla diventare tutta la mia vita. Perché è una bugia. Non è vero. Non rappresenta tutta la tua vita. Non potrà mai essere così.
E ho capito che la mia vera vita è lì che aspetta di essere vissuta. Tutto l’amore, la speranza, il dolore e la tristezza sono lì, che aspettano di essere sperimentati. Posso ignorarli e accantonarli, oppure posso accettarli. Ma accettarne una parte significa accettarli tutti. Ecco perché le persone rifiutano tutto il blocco, con la droga o altro. L’idea è: rinuncio alla felicità pur di non provare dolore.
Così ho deciso di impegnarmi. Ci ho lavorato sodo. Fondamentalmente, devi iniziare ad aprirti a chi sei veramente. Di certo non ero la persona che credevo di essere. Era più o meno il periodo di Born in the U.S.A. e ho comprato questa grande casa nel New Jersey: per me è stata davvero una cosa importante. Era in un posto dove passavo sempre. Era grande e mi sono detto: «Questa sì che è la casa di un uomo ricco». La cosa più brutta era che si trovava in una città dove da ragazzino mi avevano sputato addosso.
A Rumson?
Sì. Quando avevo 16 o 17 anni, la mia band di Freehold era stata ingaggiata in un club sulla spiaggia. E abbiamo scatenato reazioni davvero ostili. Immagino che il nostro aspetto fosse un po’ estremo… indossavamo gilet di finta pelle di serpente e avevamo i capelli lunghi. C’è una foto di me nei Castiles, ed eravamo così. Ricordo che, mentre ero sul palco, dei ragazzi ci sputavano letteralmente addosso. Questo avveniva prima che diventasse una moda, quando aveva ancora il suo vero significato.
Quindi è stata una decisione divertente, ma ho comprato questa casa e all’inizio mi è piaciuta molto, poi è arrivato il tour di Born in the U.S.A. e sono ripartito. Mi sono divertito e ho iniziato a cercare di capire alcune cose. Stavo provando a capire come creare dei legami, ma ancora una volta era una cosa piuttosto astratta.
È in quel periodo che hai conosciuto Julianne?
Sì, a metà di quel tour. E ci siamo sposati. È stata dura. Non sapevo davvero come comportarmi nei panni di marito. Lei era una persona fantastica, ma io non sapevo come fare.
Il matrimonio era parte del tuo tentativo di creare legami, di affrontare quella parte della tua vita?
Sì, sì. Avevo davvero bisogno di qualcosa e ho fato un tentativo. Chiunque sia passato attraverso un divorzio può dirti di cosa si tratta. È difficile, duro e doloroso per tutte le persone coinvolte. Ma in qualche modo sono andato avanti.
Poi io e Patti ci siamo messi insieme, durante il tour di Tunnel of Love, e ho ricominciato a trovare la mia strada. Ma quando abbiamo smesso di girare, nel 1988, per me è stato un anno difficile. Sono tornato a casa e non sono stato di grande aiuto a nessuno.
Vivevi ancora a Rumson?
Sì, poi siamo stati a New York per un po’. Non faceva per me, perché che ero cresciuto in una città piccola ed ero abituato ad avere l’auto e tutto il resto.
Avevo fatto molti progetti, ma quando siamo tornati a casa, mi sono semplicemente perso per un po’. Mi sono sentito smarrito. È durata circa un anno.
Che cosa facevi?
Il modo migliore per dirlo è che non stavo facendo ciò che avevo detto che avrei fatto. Da qualche parte tra la consapevolezza e la messa in opera, mi sono perso. Avevo molta paura. Stavo solo cercando di resistere e ho reso la mia vita molto spiacevole. Così, a un certo punto, io e Patti abbiamo semplicemente detto: «Al diavolo, andiamo a Los Angeles».
Qui mi sono sempre sentito un po’ più leggero. Ho una casa sulle colline di Hollywood dall’inizio degli anni ‘80 e di solito venivo qui tre o quattro mesi all’anno. Mi sono sempre sentito un po’ più leggero, come se avessi meno pesi da portare. Così io e Patti siamo venuti qui e le cose hanno cominciato ad andare meglio. Poi è arrivato il bambino, ed è stato fantastico. È stata la cosa più bella che potesse capitarci.
Avevi mai desiderato un figlio in passato?
Sui giornali hanno scritto molte cose sul conto mio e di Juli e che il motivo della nostra rottura sarebbe stato il desiderio di avere un figlio. Beh, non è vero. È una bugia.
Ma mettere su famiglia era qualcosa che volevi fare o ti spaventava?
Sì (pausa), avevo paura. Ma avevo paura di tutta la faccenda. Era questo il punto. Avevo fatto della musica la mia vita. Ero bravissimo nella musica e pessimo in tutto il resto.
È stata Patti la persona che ti ha aiutato a superare tutto questo?
Sì. Aveva molto occhio per le mie stronzate. Le riconosceva subito e mi smascherava. Ero diventato un maestro della manipolazione. Tipo: «Esco per un po’ e vado giù…». Trovavo sempre un modo per allontanarmi, andarmene, scansarmi e creare distanza. Evitavo l’intimità e non scoprivo mai le mie carte. Conoscevo tanti modi per farlo e pensavo che fossero piuttosto sofisticati. Ma forse non lo erano. Facevo solo quello che mi veniva naturale. E poi, quando salivo sul palco, era esattamente il contrario. Mi buttavo, ma andava bene perché era una cosa breve: è per questo che le chiamano avventure di una notte. Ero lì e poi… bang! Sparivo. Nel 1985 dal vivo ho parlato molto di comunità, ma non facevo parte di nessuna.
Quindi, quando sono tornato a New York dopo il tour di Amnesty, nel 1988, mi sentivo un po’ smarrito e perso, e sono state la pazienza e la comprensione di Patti ad aiutarmi a superare quel momento. È una vera amica, la nostra è una grande amicizia. E finalmente ho riconosciuto che dovevo iniziare ad affrontare la situazione, a piccoli passi.
Tipo?
La cosa migliore che ho fatto è stata iniziare un percorso di analisi. È stata una cosa davvero preziosa. Mi sono guardato dentro e ho visto ciò che ero realmente. Ho messo in discussione tutte le mie motivazioni. Perché scrivo quello che scrivo? Perché dico quello che dico? Lo penso davvero? Sto solo sparando cazzate? Sto solo cercando di essere il tizio più popolare della città? Ho davvero bisogno di essere così apprezzato? Ho messo in discussione tutto quello che avevo fatto ed è stato un bene. Dovresti farlo anche tu. Così ti rendi conto che non c’è una motivazione unica per ogni cosa. Le fai per tante ragioni.
Così ho attraversato un periodo di introspezione intensa. Ero stato seduto nella mia stanza otto ore al giorno con una chitarra per imparare a suonarla, e ora dovevo dedicare lo stesso tempo solo per ritrovarmi.
Stavi scrivendo qualche canzone in quel periodo?
All’inizio non avevo nulla da dire. Nel corso del 1988 e del 1989, ogni volta che mi mettevo a scrivere mi limitavo a riproporre cose già sentite. Non avevo nessuna canzone nuova da cantare. Finivo per rifare Tunnel of Love, ma in versioni peggiori. Ed era tutto molto cupo e nichilista. È buffo, perché penso che la gente probabilmente associ la mia musica a cose positive. Ma io tendo all’opposto: credo che nelle mie canzoni ci sia stato molto divertimento forzato.
Poi mi sono ricordato che Roy Bittan aveva dei brani che mi faceva ascoltare ogni tanto. Così l’ho chiamato e gli ho detto: «Vieni qui, magari provo a lavorare sui tuoi pezzi». Lui aveva la musica di Roll of the Dice e mi è venuta l’idea per quella canzone, così l’ho scritta. Parlava proprio di quello che stavo provando a fare: stavo cercando di trovare il coraggio di rischiare.
Poi Roy ed io abbiamo iniziato a lavorare insieme con una certa costanza. Avevo un piccolo studio nel mio garage e ho buttato giù Real World. Ho iniziato a fare piccoli esercizi di scrittura. Ho cercato di scrivere qualcosa che fosse più soul. Oppure giocavo con strutture pop già esistenti. Ed è così che ho creato il disco Human Touch.
Abbiamo lavorato per un anno circa e alla fine ho cercato di assemblare tutto. Alcuni album nascono già completi: Tunnel of Love, Nebraska, Lucky Town… sono venuti fuori tutti in una volta. Human Touch è stato sicuramente qualcosa che ho faticato a mettere insieme. Era come un lavoro. Ci lavoravo ogni giorno. Ma alla fine mi è sembrato buono, anche se era solo il tentativo di trovare un equilibrio. Era una sorta di cronaca del periodo post-Tunnel of Love. Quindi, quando l’abbiamo finito, l’ho lasciato decantare per un paio di mesi.
Poi ho scritto Living Proof e mentre lo facevo, mi sono detto: «Sì, è proprio quello che sto cercando di dire. È così che mi sento». È stato un momento importante, perché mi sono ritrovato con i piedi ben piantati nel presente, ed era proprio lì che volevo essere. Avevo passato gran parte della mia vita a scrivere del mio passato, reale e immaginato, in un modo o nell’altro. Ma con Lucky Town ho sentito che quello era il mio posto. Questo è quello che sono. Questo è quello che ho da dire. Queste sono le storie che ho da raccontare. Questo è ciò che è importante nella mia vita, in questo momento. E ho scritto e registrato tutto l’album in tre settimane, a casa mia.
Hai mai pensato di non pubblicare Human Touch?
Sì, però ogni volta che lo ascoltavo mi piaceva. E volevo pubblicare molta musica, perché non volevo essere legato alle mie vecchie canzoni quando andavo in tour. Volevo avere un buon repertorio da cui attingere, quando salivo sul palco.
E poi mi sono reso conto che i due album, insieme, raccontano una storia. C’è Tunnel of Love, poi c’è quello che è successo nel mezzo, che è Human Touch, e poi c’è Lucky Town. Fondamentalmente mi sono detto: «I Guns n’ Roses hanno pubblicato due album insieme, forse potrei provarci anch’io!».
Secondo un’opinione diffusa, che è menzionata anche in un paio di recensioni degli album, ti saresti isolato dalla realtà, vivendo in una grande casa a Los Angeles e cose del genere. Però, stando a ciò che dici, mi pare che la verità sia esattamente l’opposto.
Questi sono cliché e la gente ha finito per credere ai cliché nel mondo del rock. Sai, è come se fosse in qualche modo più accettabile essere dipendenti dall’eroina piuttosto che, ad esempio, frequentare il jet-set. È la solita vecchia storia. La gente non sa cosa fai a meno che non si metta un po’ nei tuoi panni.
Però anche certi tuoi fan sembrano pensarla allo stesso modo, ovvero che trasferendoti a Los Angeles e comprando una casa da 14 milioni di dollari li hai delusi o traditi.
Ho mantenuto le mie promesse. Non mi sono bruciato. Non ho sprecato tutto. Non sono morto. Non ho gettato al vento i miei valori musicali. Ho tenuto duro su tutte queste cose. E la mia musica è stata, per la maggior parte, qualcosa di positivo, liberatorio, vivo, edificante. Poi nel mentre ho guadagnato un sacco di soldi e ho comprato una casa grande. E la adoro: è fantastica. È bellissima, davvero bellissima. In un certo senso, è la mia prima vera casa. Ci sono le foto della mia famiglia, c’è un posto dove faccio musica e uno per i bambini. È come un sogno.
Amo ancora il New Jersey e ci torniamo spesso. Sto cercando una fattoria lì, da comprare. Vorrei che i miei figli avessero una cosa del genere. Ma sono venuto qui e mi sono sentito come se il ragazzo nato negli Stati Uniti avesse dismesso la bandana, capisci?
Ho faticato molto negli ultimi due o tre anni, ma è stato davvero gratificante. Sono stato molto, molto felice: più felice di quanto sia mai stato in tutta la mia vita. E non parlo di quell’idea monodimensionale di “felicità”. Significa accettare lutti, dolore e mortalità. E mettere da parte il copione e lasciare che le cose vadano come devono andare.
Qual è stata la cosa più difficile della paternità?
Il coinvolgimento totale. Fa paura amare qualcosa così tanto, fa paura essere così innamorato. Perché ti assalgono una miriade di paure, specialmente nel mondo in cui viviamo. Ma poi ci arrivi: «Capisco, per amare così tanto qualcosa, tanto quanto amo Patti e i miei figli, devi essere in grado di accettare quel mondo fatto di paura, di dubbi, di incertezze. Devi dare tutto oggi senza risparmiarti». E quella invece era la mia specialità: mantenere le distanze in modo che, se avessi perso qualcosa, non avrebbe fatto così male. Puoi farlo, ma non ti rimarrà mai nulla.
È buffo, perché la notte in cui è nato il mio bambino è stata incredibile. Ho suonato sul palco davanti a centinaia di migliaia di persone e alcune sere ho sentito il mio spirito elevarsi per davvero. Ma quando è nato lui, ho provato un tipo di amore che non avevo mai provato prima. Nel momento in cui l’ho sentito, è stato terrificante. E ho capito perché si scappa: perché fa tanta paura. Ma è anche una finestra su un altro mondo. Ed è il mondo in cui voglio vivere adesso.
Diventare padre ha cambiato il modo in cui guardi i tuoi genitori?
È incredibile quanto sia cambiato. Ora sono più vicino ai miei genitori e penso che anche loro si sentano più vicini a me. Mio padre, in particolare. Sapere che sarei diventato papà forse l’ha spinto a riflettere sul nostro rapporto. Sono rimasto piuttosto sorpreso, è successo all’improvviso.
Non è mai stato un gran chiacchierone, io gli parlavo attraverso le mie canzoni. Non è il modo migliore per farlo, ma sapevo che lui le ascoltava. Poi, prima che nascesse Evan, abbiamo finito per parlare di molte cose che non ero sicuro avremmo mai affrontato. Probabilmente è stato uno dei regali più belli della mia vita. E ha reso la mia imminente paternità molto ricca e più significativa. È buffo, perché i bambini sono molto potenti, influenzano tutto. Il bambino non era ancora nato, ma stava già cambiando il modo in cui le persone si sentivano e parlavano tra loro, il modo in cui si trattavano a vicenda.
Hai detto che Pony Boy era una delle canzoni che tua madre ti cantava.
Mia nonna me la cantava quando ero piccolo. Ho inventato gran parte delle parole nelle strofe; sono sicuro che esista un testo vero, ma non sono certo che sia come quello che ho usato io. Era la canzone che cantavo al mio bambino quando era ancora nella pancia di Patti. E quando è nato, la conosceva già. È divertente. E funzionava come per magia. Lui piangeva, io gliela cantavo e lui smetteva immediatamente. Incredibile.
Tu e Patti vi siete sposati in grande, vero?
Non è stato un matrimonio poi così grande, c’erano circa 80 o 90 persone. L’abbiamo fatto a casa nostra ed è stata una giornata fantastica. In quel momento puoi ricordare ad alta voce tutte le cose che ti hanno portato fin lì. Adesso credo in tutti i rituali e le cose di quel tipo: penso che siano davvero importanti. E so che sposarci ha rafforzato il nostro rapporto. Per molto tempo non ho riposto molta fiducia in queste cose, ma adesso ho capito che sono importanti. Per esempio, mi manca andare in chiesa. Mi piacerebbe, ma non so dove andare. Non condivido tutti gli aspetti dogmatici, ma mi piace l’idea che le persone si riuniscano per arricchimento spirituale, illuminazione o anche solo per salutarsi una volta alla settimana.
Il fatto che il Paese sia spiritualmente allo sbando è un concetto che hai menzionato parlando delle rivolte di Los Angeles.
Tragicamente stiamo raccogliendo ciò che è stato seminato. L’eredità che stiamo lasciando ai nostri figli in questo momento è fatta di terrore. Crescere in America, adesso, significa soprattutto: terrore, paura, sfiducia, odio cieco. Siamo logorati al punto che chi sei, cosa pensi, cosa credi, da che parte stai, cosa senti nel profondo della tua anima non hanno alcun significato. Al contrario, ciò che conta è “Che aspetto hai? Da dove vieni?”. È spaventoso.
Ricordo che all’inizio degli anni ‘80 sono tornato nel quartiere dove avevo formato la mia prima band. Era sempre stato un luogo multietnico. Ero con un amico, siamo scesi dall’auto e abbiamo camminato per una ventina di minuti. Quando siamo tornati alla macchina l’abbiamo trovata circondata da un gruppo di uomini di colore più grandi e alcuni ragazzi che mi hanno chiesto: «Cosa stai facendo?». Ho risposto: «Ho vissuto qui per quattro o cinque anni». E loro: «No, cosa ci fai nel nostro quartiere? Quando andiamo nel tuo quartiere, ci fermano solo per il fatto di camminare per strada. La gente vuole sapere cosa ci facciamo nel tuo quartiere. Quindi cosa ci fai tu nel nostro quartiere?». L’atmosfera era tesa.
Le rivolte sono scoppiate subito dopo la nostra seconda intervista. In quel momento era piuttosto spaventoso trovarsi a Los Angeles. Sembrava la fine di un’era. Giovedì (il giorno dopo l’inizio delle rivolte), eravamo a Hollywood per fare le prove e la gente era spaventata, davvero terrorizzata. Ti sentivi solamente triste o arrabbiato.
Alla fine degli anni Sessanta, Lyndon Johnson ha istituito una famosa commissione che ha affermato che ci voleva uno sforzo grande e costante da parte del governo e della popolazione per migliorare la vita nei quartieri poveri delle città. Ma tutte le iniziative avviate allora sono state smantellate nell’ultimo decennio. Sono stati inviati molti segnali terribili, che hanno creato un clima di vera intolleranza. La gente ha colto il messaggio e ha agito di conseguenza. L’ascesa della destra e dei gruppi di estrema destra non è casuale. Uno come David Duke è imbarazzante.
Quindi stiamo regredendo. E non solo abbiamo fallito nei nostri sforzi per fare qualcosa al riguardo, ma siamo anche in bancarotta.
Stiamo vendendo il nostro futuro e non credo che nessuno creda davvero che chiunque vinca le prossime elezioni affronterà seriamente i problemi in modo risolutivo.
Mike Appel, il tuo ex manager, ha contribuito alla stesura di un nuovo libro (Down Thunder Road: The Making of Bruce Springsteen). Lì sostiene, in pratica, che il tuo attuale manager, Jon Landau, ti ha rubato a lui.
È un peccato. In realtà Mike ed io avevamo raggiunto un punto in cui il nostro rapporto si era esaurito. Eravamo in un vicolo cieco. Poi è arrivato Jon, con un punto di vista piuttosto articolato e un’idea su come risolvere alcuni problemi di fondo, per esempio come registrare e dove registrare.
Ma Mike ha trasformato Jon nel suo mostro, forse per non trasformare me in un mostro. È una cosa classica: chi vorrebbe mai incolpare se stesso per qualcosa che è andato storto? Nessuno. È difficile dire: «Forse ho fatto un casino». La verità è che, se non fosse arrivato Jon, sarebbe arrivato qualcun altro. Oppure nessun altro, ma io avrei seguito la mia strada. Jon non ha detto: «Ehi, facciamo quello che voglio io». Ha detto: «Sono qui per aiutarti a fare ciò che vuoi fare». Ed è quello che ha fatto dal giorno in cui ci siamo conosciuti.
Altre due persone che lavoravano con te, degli ex roadie, qualche anno fa ti hanno fatto causa sostenendo che non gli avevi pagato gli straordinari, tra le altre cose. Qual è stata la tua reazione?
È stata una delusione. Ho lavorato con queste due persone per molto tempo e pensavo di essere stato onesto con loro. Quando se ne sono andati, ci siamo salutati con strette di mano e abbracci. E poi, circa un anno dopo, bang!
Penso che se chiedessi alla maggior parte delle persone che hanno lavorato con me cosa pensano di quell’esperienza, direbbero di essere state trattate davvero bene. Ma se una sola persona è scontenta o insoddisfatta, tutti vogliono sentire solo quella campana. Al di là di tutto questo, dell’assurdità della cosa, il fatto è che se passi molto tempo con qualcuno e si verifica un grosso malinteso, be’, ci stai male.
Di recente sei stato al Saturday Night Live. Era la prima volta che ti esibivi in televisione. Ti è piaciuto?
È stata un’esperienza molto intensa. Prima di iniziare provi due o tre volte, ma quando siamo andati in onda è stato come dire: «Ok, hai solo tre canzoni, devi dare il massimo». È stato diverso, ma mi è piaciuto molto. Insomma, per qualche motivo non sono mai apparso in TV finora, ma adesso che l’ho fatto mi chiedo: «Cavolo, perché non l’ho fatto prima?». Ci sarà stato un motivo. Di sicuro penso che inizierò a usare la televisione in qualche modo. Credo che a questo punto sia destino, per me, trovare un modo per raggiungere le persone che potrebbero essere interessate a ciò che dico, a ciò che canto.
Credo in questa musica tanto quanto ho creduto in qualsiasi altra cosa io abbia mai scritto. Penso che sia autentica. Mi sento come se fossi al culmine delle mie capacità creative, in questo momento. Penso che nel mio lavoro si stia manifestando una complessità di idee che in passato ho faticato a raggiungere. E mi ci sono voluti 10 anni di duro lavoro al di fuori della musica, per arrivare a questo punto. È stato un lavoro davvero duro. Ma quando ci sono arrivato, non ho trovato amarezza e disillusione. Ho trovato amicizia, speranza, fiducia in me stesso, uno scopo e della passione. È una bella sensazione. Mi sento come nella grande canzone di Sam e Dave Born Again. Mi sento un uomo nuovo.
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