Roberto Arditti

12 agosto 2025

Non è morto un giornalista, è morto un miliziano che ha scelto di combattere con i suoi strumenti, la sua professionalità, la sua intraprendenza. Anas al-Sharif aveva scelto da tempo un mestiere diverso dal cronista. Aveva scelto di militare nell’ala dura dell’opposizione a Israele, lo possiamo dire perché ci sono evidenze indiscutibili in tal senso. E lo possiamo dire anche perché a Gaza (e non solo) la rete dei collaboratori di Al Jazeera agisce come struttura di affiancamento del potere incontrastato di Hamas. Infine lo dobbiamo dire perché le lamentale ipocrite del poderoso (e ricchissimo) mondo «Pro Pal» sono francamente insopportabili.

I selfie di Anas al-Sharif parlano chiaro: non si mettono in posa sul divano i vertici di Hamasse non ti considerano «cosa loro». Quello scatto, postato con orgoglio da lui medesimo sul profilo X, non è giornalismo, bensì adesione, militanza, condivisione di obiettivi, metodi, destini. Ma non è finita, perché oltre i selfie ci sono le fotografie. Non ti abbraccia con familiarità Yahya Sinwar capo militare di Hamas e regista dell’assalto del 7 ottobre se non sei persona «sua», di fiducia sino al contatto fisico.

 

Sceneggiata ProPal alla Rai:

Video su questo argomento

Stiamo parlando del regista operativo del più spaventoso assalto alla sicurezza israeliana, un uomo vissuto per anni nell’ombra più assoluta per timore di rappresaglie. Infine i video. Non ti lasciano camminare tra uomini armati e incappucciati di Hamas, mentre trascinano ostaggi israeliani alla gogna pubblica, se non sanno che sei dalla loro parte e che racconterai ciò che serve alla causa.

In quel ruolo al-Sharif era impeccabile: un propagandista con talento, capace di confezionare immagini e narrazioni che mobilitano l’opinione pubblica contro Israele, sostituendo all’informazione la militanza, alla verifica il tifo, alla cronaca l’agit-prop. Il 7 ottobre 2023 l’orrore si è visto in faccia: 1.200 israeliani uccisi, famiglie massacrate, corpi bruciati, stupri, torture. Da allora la propaganda ha lavorato a pieno ritmo per trasformare l’assalto in epica e per dipingere Israele come il solo colpevole. Colpevole di una reazione certamente violentissima, ma che Hamas ha cercato e istigato continuamente, perché il movimento è pronto a sacrificare l’intera popolazione di Gaza sull’altare di una lotta senza quartiere all’odiato popolo ebraico. In questa officina dell’odio, le immagini di al-Sharif sono state catalizzatore e megafono, con l’autorevolezza apparente che il tesserino da reporter regala a chilo usa per fare battaglia politica.

Ripetiamolo: Anas al-Sharif non muore da giornalista, ma da soldato di un esercito di morte e disperazione. Un esercito che da anni opera con due bracci: quello delle armi, che spara e uccide, e quello della propaganda, che semina odio e prepara la prossima strage.

 

Quando Hannoun piangeva Sinwar. Martire della resistenza. E la sinistra nasconde i legami con l'uomo di Hamas

Al-Sharif stava nel secondo, svolgendo una funzione preziosa per Hamas, sostenuta da finanziamenti e protezioni, nella consapevolezza che oggi la guerra si combatte soprattutto davanti a un obiettivo e dietro una tastiera. La sua agenda era limpida e metodica. Il punto è che in troppi fingono di non vedere. Per comodità ideologica si preferisce ripetere la favola del reporter «caduto sul campo» invece di riconoscere il militante in prima linea nella guerra più sporca e menzognera del nostro tempo. Le prove sono lì: selfie, abbracci, accessi esclusivi agli apparati del terrore. Se non fossi «dei loro», quelle porte non si aprirebbero, quelle confidenze non esisterebbero. E infatti si sono aperte. Questa è la sostanza che conta, ben oltre la retorica pietosa di circostanza.

C’è poi un tema che riguarda noi, l’Occidente e l’Italia. Abbiamo il dovere di difendere la libertà di stampa, pilastro della democrazia. Proprio per questo dobbiamo distinguere: tra chi raccontai fatti, anche durissimi, e chili piega scientemente per sostenere un disegno di guerra. Confondere le due cose significa consegnare ai professionisti della manipolazione un lasciapassare morale che non meritano. La verità non è un orpello: è la condizione per giudicare. E qui la verità è semplice: Anas al-Sharif non era un cronista, era un protagonista a pieno titolo di quella scena che fingeva di raccontare da «fuori». A Gaza, in Israele, in Medio Oriente lo sanno tutti. Solo in Europa (alcuni) fingono di non capire. Vergogna. Non lo si dica con livore, ma con fermezza. Non per insultare un morto, ma per chiamare le cose con il loro nome. Chi crede che le immagini siano innocenti sbaglia: hanno sempre un autore, un punto di vista, un obiettivo. Nel suo ca-so l’obiettivo era chiaro: delegittimare Israele, normalizzare la violenza, seminare rancore. È un mestiere, purtroppo terribilmente efficace. Ma non è giornalismo. È guerra con altri mezzi. Punto fine.