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L’attore, regista e performer Jackie Chan è stato per anni la più grande star di Hong Kong e poi della Cina, ed è riuscito ad avere successo anche a Hollywood con una versione rivista e più semplice del suo cinema d’azione e di arti marziali in chiave comica. Secondo molti, se si considera non solo l’Occidente ma tutto il mondo, è la star cinematografica più riconoscibile in assoluto. Ha già ricevuto un Oscar alla carriera e adesso il festival di Locarno, uno dei più antichi e cinefili d’Europa e quindi del mondo, gli ha conferito il premio alla carriera, riconoscendogli di fatto un ruolo non solo nel cinema d’intrattenimento ma anche nella storia dell’evoluzione dell’arte cinematografica.
Nel presentarlo il direttore del festival, Giona A. Nazzaro, lo ha definito «un vero genio che ha reinventato le regole del cinema, cambiando la forma dei film». Non esisteva infatti niente di paragonabile ai film d’azione e comici di Jackie Chan prima che Jackie Chan, come regista, mettesse insieme arti marziali, acrobazie, stunt estremamente elaborati e umorismo da mimo.
Già Quentin Tarantino sostenne che come attore Jackie Chan fosse il più grande performer di comicità fisica da quando il cinema è diventato sonoro, paragonandolo quindi implicitamente ai grandi comici d’azione del cinema muto americano come Buster Keaton, Charlie Chaplin e Harold Lloyd, le cui gag vengono spesso rifatte o citate nei suoi film.
Nonostante abbia trovato un successo a Hollywood con la serie di film Rush Hour (Due mine vaganti, Colpo grosso al Drago Rosso e Missione Parigi), Chan si è sempre detto insoddisfatto di quei film, perché per gli standard di lavoro del cinema statunitense non era per lui possibile ottenere i livelli di azione e ritmo a cui era abituato in Cina. Per raggiungere quei risultati in certi casi possono volerci anche due mesi per una sequenza da venti minuti: «Per la scena di dieci secondi in cui cado per terra dalla torre di Project A ci abbiamo messo 7 giorni, perché non sono Superman e avevo paura di farmi male», ha raccontato presentando a Locarno la proiezione del film, uscito nel 1983 e tra i suoi primi grandi successi.
«Ogni volta guardavo giù, mi chiedevo cosa mi sarei rotto e trovavo una giustificazione per non farla» ha detto Chan. Poi fu convinto: «quando sono atterrato non avevo più fiato e non capivo niente ma dovevo recitare la mia battuta, la mia coprotagonista in scena mi disse “Di’ qualsiasi cosa, muovi le labbra!” e così ho fatto, poi al doppiaggio abbiamo messo la battuta». La scena fu girata due volte, e nel film furono incluse poi tutte e due, una dopo l’altra.
Indisciplinato a scuola, a sei anni Jackie Chan fu mandato dai genitori per dieci anni alla China Drama Academy di Hong Kong, una scuola dell’Opera di Pechino, che prevedeva una formazione teatrale molto tradizionale, fatta di allenamento fisico rigoroso. «La sveglia era alle 5:30 tutti i giorni e facevamo esercizi su come stare a testa in giù per un’ora».
Uscito dalla scuola lavorò come controfigura nei film di arti marziali, ed era già bravissimo nei movimenti, che sono importanti per dare credibilità alla lotta. Il suo primo ruolo da stuntman fu in Dalla Cina con furore, nel quale fu controfigura del grande cattivo finale, incassando il calcio letale di Bruce Lee. «Lui mi fece i complimenti, e quando l’anno dopo ero una delle molte comparse in I 3 dell’Operazione Drago, mi riconobbe e mi scelse perché interpretassi l’ultimo di una serie di scagnozzi che dovevano subire le sue botte. In quell’occasione per errore mi colpì davvero» ha raccontato fiero a Locarno.
(al minuto 1:17 del video, Jackie Chan blocca Lee da dietro, a 2:23 prende una bastonata e a 3:42 cade in acqua)
Morto Bruce Lee, il cinema di Hong Kong cercò di rendere Jackie Chan il suo erede. Nel 1976 girò New Fist of Fury (Fist of Fury era il titolo originale di Dalla Cina con furore): «La sceneggiatura era brutta, l’azione brutta e volevano farmi fare le cose di Bruce Lee che io non sapevo fare. Fu un disastro». Ci mise molto a ottenere di essere lui a scrivere e disegnare le coreografie dei suoi film, inserendo l’umorismo. Quando ci riuscì, con Il serpente all’ombra dell’aquila e ancora di più con Drunken Master, dei film tradizionali in cui mise un po’ della sua personalità, trovò il successo.
All’inizio degli anni Ottanta tentò anche una prima fallimentare carriera americana, comparendo in film come La corsa più pazza d’America, da cui prese l’idea di mostrare i ciak sbagliati nei titoli di coda. Intanto in Asia la sua fama si era allargata al di là della sola Cina e questo gli consentì di girare nel 1983 Project A – Operazione pirati, sperimentando con l’azione. Era per molti versi ancora un film tradizionale, con molto umorismo di dialoghi e momenti isolati di azione e acrobazie, ma era anche l’inizio di qualcosa di totalmente nuovo. Per quel film fu creato il Jackie Chan Stunt Team, una squadra di stuntmen scelti, molto professionali e addestrati, così da poter andare oltre a quello che si faceva di solito.
Il film che cambiò tutto fu però Police Story, che nel 1985 fu un grandissimo successo ed ebbe diversi sequel, uno più spettacolare dell’altro. «Nel poco tempo in cui avevo lavorato in America mi volevano snaturare, volevano farmi fare il poliziotto come Clint Eastwood, mi dicevano “Così si fanno i polizieschi”. Ero così arrabbiato che tornato a Hong Kong mi dissi: “Ora gli faccio vedere io come si fa un poliziesco!”» ha raccontato Chan.
Police Story aumentava tutto: l’audacia nelle scene d’azione, la sperimentazione nelle coreografie, la precisione nell’esecuzione, l’inventiva e il ritmo. Oltre a stunt mai tentati prima, c’è azione o almeno un’acrobazia quasi in ogni scena, anche solo per rispondere al telefono, e i combattimenti sono condotti con arti marziali di strada invece che tradizionali.
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La scena in cui si fece trascinare aggrappato a un autobus fu il manifesto del cinema di Chan che, trentunenne, faceva da interprete, regista, sceneggiatore e coreografo delle scene d’azione, cantando perfino la colonna sonora. Come in tutti i suoi film, la trama e la scrittura erano semplicissime e per gli standard del cinema occidentale ingenue e moralistiche: ma era il primo film-di-Jackie-Chan per come lo intendiamo oggi.
Come ha spiegato nella conferenza tenuta a Locarno, in quel film introdusse un grande cambiamento nel senso del ritmo delle scene d’azione, che all’epoca nel cinema di Hong Kong erano piatte e monotone, se si toglieva la musica d’accompagnamento. Con Police Story, e poi in tutti i suoi film successivi, il ritmo nei colpi diventò la base della scrittura e della coreografia delle scene di botte, che venivano sfruttate come se fossero percussioni. Una scena di Senza nome e senza regole del 1998, anno in cui ormai padroneggiava il suo stile ad altissimi livelli, ne è un buon esempio.
Tra gli anni Ottanta e Novanta Jackie Chan diventò una star mondiale e ci fu il secondo tentativo di carriera hollywoodiana, quello riuscito: «la prima volta produttori e registi non sapevano chi fossi. Non mi rispettavano, non mi ascoltavano e non mi facevano fare niente» ha detto Chan. La seconda volta ormai «c’era una nuova generazione al potere, che mi conosceva». Questo non bastò secondo Chan a rendere belli i suoi film di Hollywood, «perché non mi facevano montare e non si poteva lavorare come sono abituato: ma almeno era meglio di prima».
Negli anni Duemila Chan ha continuato a fare film d’azione e piccoli stunt nonostante l’avanzare dell’età glielo consentisse sempre meno. Dopo di lui nessuno ha davvero raccolto la sua eredità, ma è un po’ come se l’avessero fatto tutti gli attori nel cinema asiatico, per l’influenza che ebbe il suo modo di usare la recitazione del corpo per fare qualsiasi cosa, dalle parti sentimentali a quelle umoristiche, da quelle drammatiche a quelle di tensione.
Per molto tempo Chan ha avuto posizioni politiche a favore della democrazia a Hong Kong ma, dopo il passaggio alla Cina del 1997, è diventato sempre più un ambasciatore del governo cinese, sia nei film che poi nelle attività pubbliche. Il governo cinese parallelamente si è impossessato della sua immagine come grande esempio di uomo cinese, anche se la sua carriera è stata resa possibile dalla particolare situazione vissuta a Hong Kong quando era ancora sotto il controllo britannico.