Raeda Taha, potremmo dire, è figlia di due padri. Il primo è Ali Taha, considerato un “martire” in Palestina. Nel 1972, dirottò il famoso Sabena 571 in rotta verso Israele da Bruxelles. Una volta atterrato a Tel Aviv, i quattro dirottatori qualificatisi sotto la sigla di “Settembre Nero” progettarono di scambiare i passeggeri israeliani con circa 300 palestinesi detenuti nelle prigioni israeliane. Ma Israele riuscì a liberare gli ostaggi con un raid dopo 24 ore di negoziati. Due dirottatori furono uccisi, tra cui Ali, nello scontro a fuoco e altri due furono catturati. Anche un giovane Benjamin Netanyahu partecipò a questa storica operazione militare, insieme a un altro futuro primo ministro, Ehud Barak. Da quel giorno in poi, Raeda e i suoi tre fratelli furono adottati da Yasser Arafat, leader dell’OLP e primo presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese. Dal 1987 al 1994, Raeda ha lavorato con lui anche come portavoce, in un periodo che comprende anche gli storici Accordi di Oslo del 1993, dove, di fronte a Bill Clinton, Yasser Arafat e Yitzhak Rabin si strinsero la mano e firmarono i protocolli di pace che garantirono a entrambi i Premi Nobel. Raeda Taha oggi vive tra Ramallah, Amman e Beirut. Ha vissuto anche negli Stati Uniti e si dedica al teatro e alla cultura, cercando di rappresentare la storia della Palestina in un modo diverso dalla politica.

Ha scelto di parlarci, non senza resistenze e dal suo punto di vista, di Gaza, del rapporto con Israele e di un processo di pace che oggi sembra davvero lontano dalle speranze del 1993.