Il paradosso

A proposito dei possibili esami, ecco la domanda delle domande, fra quelle poste dal presidente istruttore Clotilde Parise: «La loro esecuzione avrebbe determinato, secondo il criterio di probabilità logica, un epilogo diverso da quello verificatosi?». Premettendo che il ciclismo «è universalmente riconosciuto come attività cardio-salutare», i consulenti dei giudici di secondo grado hanno osservato: «Certamente lo sforzo prolungato indotto dalla sua pratica può fungere da “stress test” estremo e scatenare aritmie letali in soggetti con cardiopatie note o misconosciute, configurando il cosiddetto paradosso dell’esercizio: la stessa pratica che protegge nel lungo termine aumenta transitoriamente il pericolo di eventi fatali». Dunque? «Il ciclismo in soggetti con cardiopatie è in grado di condurre a morte improvvisa, quindi, se l’idoneità agonistica non fosse stata concessa, il soggetto non sarebbe deceduto in quanto non esposto alle sollecitazioni funzionali connesse alla pratica dell’attività sportiva in questione».

Ciò detto, «si può ipotizzare probabilisticamente che un corretto iter diagnostico avrebbe consentito una stratificazione del rischio aritmico e quindi l’eventuale impianto di un defibrillatore». Da questo punto di vista, «non si può escludere che un evento aritmico letale avrebbe potuto comunque intervenire prima di poter raggiungere l’indicazione ad un defibrillatore impiantabile in prevenzione primaria», però «l’astensione dall’attività sportiva ciclistica avrebbe ricondotto il rischio statistico nell’alveo della storia naturale della patologia eliminando condizioni favorenti aritmie letali». Hanno concluso Marozzi e Finzi: «Naturalmente le nozioni di cui si è discusso vanno poi inquadrate in un contesto che lasciamo agli uomini di Legge».
Così sarà, dopo 14 anni: parola alla Corte d’Appello di Venezia, dove la prossima udienza è in calendario per il 22 ottobre.