Chi mi crederebbe se dicessi che questa è una storia d’amore? Se già il titolo del libro mi smentisce: “Sola, in moto”. Ma è l‘autrice stessa a dirlo. Elspeth Beard, una donna inglese dallo sguardo fermo e determinato. Diciamo subito che “determinato” è uno degli aggettivi che più di frequente ama usare. La incontro a Sommacampagna. È venuta a presentare il suo libro, lo scorso 11 luglio nell’ambito della rassegna “il Giardino dei Viaggi”. A condurre il dialogo in traduzione simultanea, Daniela Barani del locale Comitato Biblioteca e Luigi Licci, libraio della Gulliver di Verona.
Edito da La Malasuerte nel 2021, il libro della Beard racconta l’epico viaggio durato due anni, dal 1982 al 1984, in solitaria per il mondo su una moto usata, una BMW R60/6 del 1974. Già da questo si può intuire che la Beard ha fatto della scrittura un metodo per riordinare una personale memoria. Una memoria “vecchia” di trent’anni. Solo nel 2014, la Beard ha iniziato a metterla su carta.
La copertina del libro
Per molti anni, dunque, la grande avventura on the road è rimasta a maturare nei cassetti, con le fotografie (che adesso sono state pubblicate, a colori), le mappe, gli itinerari, gli entusiasmi, i pianti, gli atti di volontà e gli scoraggiamenti, i numerosi incidenti, le deviazioni di percorso, tutto registrato su diari e su tante piccole audiocassette. Un’autobiografia su due ruote che non è stata creata a tavolino. La bellezza dell’avventura narrata l’ha creata Elspeth Beard in persona, dal vivo, col corpo.
L’autrice non ha fatto appello a nessuna fervida immaginazione ma solo alla sua volontà di andare oltre, di rischiare, di sfidare le regole. Ha dato spazio alla sua anima esploratrice, prima che all’anima scrittrice. Questa è venuta molto dopo. Prima di tutto, c’è stato l’emergere del suo spirito (british) senza frontiere. Prima di tutto, la temerarietà del carattere e, di certo, la passione per le moto. Ma, su questo particolare aspetto, attenzione a non associare la Beard alla figura della semplice mototurista, amante delle due ruote. In realtà, la Beard ha dato corpo ad un’esperienza motociclistica unica, probabilmente irripetibile, da cui ha ricavato, e adesso dona, un significato che va oltre il report delle “cose viste”. Forse anche senza volerlo, ha dato corpo a quella che potremmo definire un “biker-femminismo”.
Viaggiare è (ancora) un atto politico
Azzardiamo pure a dire che ci sia stato del “femminismo” nelle sue intenzioni. E azzardiamo anche un neologismo da centauro. Ma se ci permettiamo quest’azzardo, è perché l’ambientazione della vicenda narrata è quella di inizio anni ’80 del ‘900 e allora le lotte femministe erano ancora nell’aria. E all’età di 23 anni, Elspeth Beard non può che notare una cosa: non ci sono donne motocicliste. Non se ne vedono, in giro, non in viaggio. E perché? Forse perché la moto era da considerarsi un mezzo, uno strumento prettamente maschile?
Quarant’anni fa, una questione del genere non avrebbe fatto sorridere, per niente. Oggi, la situazione è cambiata. Diciamo che Elspeth, nel suo piccolo, ha contribuito a questo cambiamento. Porgendo una battuta che forse solo i motociclisti possono apprezzare potremmo dire: la Beard ha lottato per l’emancipazione delle “zavorrine”. E ha vinto. Ora, mettendo da parte lo scherzo e senza alcuna ironia, c’è da riconoscere seriamente un gran valore alla sua impresa: la Beard davvero ha dimostrato che una donna non è da meno. Lo ha dimostrato nei fatti, a modo suo, coraggiosamente, pericolosamente. Da sola, in moto, e contro tutti. Elspeth racconta, infatti, quanto sia stata sbeffeggiata da un noto magazine del tempo a cui aveva scritto per comunicare il suo progetto. I giornalisti, gli specialisti la derisero platealmente, consigliandole sotto sotto di fare cose più… insomma sì, cose più per una come lei. Ma una come lei non la fermi col machismo o con il retrivo sarcasmo de noialtri esperti.
La Beard è partita lo stesso, andando ad affrontare i problemi laddove c’erano. Perché, di problemi per una donna sola in moto, ce ne sono stati, ovviamente. Meno di quel che si pensi, ma ci sono stati. Come lei stessa racconta, ad esempio, i suoi capelli lunghi, che venivano fuori dal casco, li ha dovuti, ad un certo punto, tagliare. Denunciavano la sua identità e questo non agevolava assolutamente il suo viaggio. Così come ha dovuto eliminare anche altri più evidenti segni che avrebbero fatto esclamare al suo passaggio “ehi, ma quella è una femmina…” con tutte le fastidiosissime, forse anche rischiose, conseguenze. Altra questione: con il lessico di oggi, diremmo che “Sola, in moto” è una storia di “resilienza”. Vero. Elspeth Beard ne ha avuta tanta. Ma è meglio non far troppo conto oggi di una categoria psicologica che a quel tempo, obiettivamente, non c’era. C’era la “resilienza” ma si chiamava in altro modo.
Elspeth Beard, a sinistra, con Daniela Barani e Luigi Licci
Contro le scorciatoie, per la trasformazione
E oggi Elspeth non usa volentieri questo termine. Il suo libro insegna la caparbietà e la forza d’animo (tra le mille altre cose che insegna) e questo non dovrebbe renderlo meno interessante per il lettore odierno. Ho come l’impressione che se parlassi di “resilienza” aggiornerei all’oggi un’avventura che, invece, ha in sé uno spirito diverso. Uno spirito vinted. Dalla lettura di “Sola, in moto” traspare un modo di affrontare l’ignoto tipico di allora. Ed è bellissimo. È bellissimo immergersi dentro quel tempo tramite queste meravigliose pagine scritte con disarmante sincerità e accuratezza da Elspeth Beard la quale, oggi, sottolinea una cosa “che ha davvero capito”: se dovesse rifare quel viaggio con una moto moderna e con la tecnologia di cui si arma il viaggiatore medio odierno, beh non sarebbe affatto la stessa cosa. In che senso? Nel senso che non ci sarebbe trasformazione. Perché un vero viaggio è un viaggio che non ammette facilitazioni, non troppe almeno.
Niente trucchi, se ti metti in viaggio “da solo”. Prudenza, certo, ma senza pavidità. Perché solo accettando il rischio della solitudine e dell’imprevisto, il viaggio fa quello che deve fare: trasformarti. Farti tornare a casa diverso. Migliore. Nel vero viaggio (che non è turismo iperconnesso) scopri che l’Altro non è mai il nemico che vedi in TV, scopri che puoi incontrare gente come te, semplicemente questo: gente che, al pari tuo, sa esser d’aiuto al viandante. Scopri dunque nella solitarietà del viaggio la solidarietà che non manca in nessuna cultura. Quella solidarietà tra gente comune di popoli diversi che, stando nel bisogno, conforta, rincuora, guarisce da tante piccole, ingiustificate, avversioni. In questo senso, “Sola, in moto” è, come dicevamo all’inizio, una storia d’amore? No, no, non solo in questo senso. “Sola, in moto” è proprio (letteralmente) una storia d’amore, cioè, di un innamoramento. La storia di un “tesoro” trovato sulla strada. E pensare che la decisione di partire nel 1982, era scaturita da una forte delusione affettiva, da un cuore spezzato. Ma tant’è.
E non abbiamo detto nulla della moto. Eppure, la BMW R60/6 è la coprotagonista di questa storia. I lettori-motociclisti sapranno perdonarmi e troveranno anche loro nel libro della Beard tutto una serie di informazioni tecniche, ad esempio, sulle manutenzioni, i rifornimenti ecc. Le tappe: troppe per elencarle. Si fa prima a dire che, tranne l’Africa, il Canada e l’America del Sud, il resto c’è. La BMW R60/6 porta Elspeth davvero dappertutto, e lei vuole andare dappertutto, dritta nel cuore delle diversità geografiche e culturali. Fuori dai – è proprio il caso di dire – dai luoghi comuni, inteso questo nella più ampia accezione, anche a livello della scrittura: un’ottima tessitura narrativa.
Se poi qualche motociclista volesse ripercorrere le orme della Beard, ci sono le mappe (ma non le tracce GPS). Se poi quel motociclista, fosse una motociclista, allora buon viaggio davvero, la strada è spianata e nonostante tutto c’è ancora altra strada da fare verso la vera scoperta dell’amore per sé stessi e per la Terra.
Foto da Unsplash di Alexey Demidov
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