di
Allegra Ferrante e Giampiero Rossi
La Caritas: «Una galassia articolata. Ci sono situazioni in cui il futuro dei ragazzi è ineluttabilmente identico al passato dei genitori». Coop sociale Arimo: «Dispersione scolastica sopra il 65%». Kayros: «Le soluzioni emergenziali non servono, non si può andare avanti a decreti»
Chi ci lavora quotidianamente assicura che i ragazzi dei campi nomadi non sono inavvicinabili. Dal supporto scolastico all’assistenza sanitaria, dall’orientamento legale alle attività di socializzazione, ci sono diverse associazioni e cooperative sociali che lavorano ogni giorno per ridurre le barriere. «Sono una galassia all’interno della quale si incontrano realtà molto diverse, italiani, romeni e bosniaci — spiega Sabrina Ignazi, responsabile dell’Area Rom della Caritas ambrosiana — con atteggiamenti molto diversi: i gruppi originari della Romania, per esempio, sono molto inclini alle relazioni e per molti di loro mandare i figli a scuola è un fatto assolutamente scontato. Viceversa, non è altrettanto facile avvicinare i bosniaci».
La Caritas frequenta i campi nomadi da trent’anni e dal 2014 c’è un’unità mobile formata professionalmente che ogni giorno cerca di intercettare bisogni e avviare percorsi di emancipazione, che in diversi casi sono sfociati in una casa. Ma la stessa Sabrina Ignazi non nasconde le difficoltà: «Ci sono situazioni in cui il futuro dei bambini è ineluttabilmente identico al passato dei loro genitori».
Tuttavia sono centinaia i minori rom, sinti e nomadi che, bene o male, frequentano scuole e centri di accoglienza. Paolo Tartaglione, presidente della Cooperativa sociale Arimo, descrive la fatica quotidiana: «Ci sono preadolescenti che rimandano l’incontro con la crescita, col futuro e il nostro obiettivo è sfidarli a desiderare un avvenire gradevole, desiderabile, soddisfacente». Tra i ragazzi rom, però, sebbene le comunità offrano supporto, il tasso di dispersione può raggiungere il 65 per cento. E allora si punta su strade alternative: «Favoriamo una scelta professionale vicina alle loro inclinazioni, alle loro potenzialità». L’idea è giocare sulla loro «voglia di riscatto», e «una volta trovata la chiave d’accesso, li vediamo impegnarsi in percorsi di apprendimento che portano a grandissime soddisfazioni». Le aziende milanesi, secondo Tartaglione, sono molto disponibili, anche se «i nostri ragazzi all’inizio non sanno fare assolutamente niente e anzi, mediamente, fanno pure qualche danno e arrivano in ritardo». La sfida più ardua, sottolinea ancora il presidente di Arimo, «è trasformare il desiderio in volontà, ma quando ci si riesce, viviamo di rendita».
Anche don Claudio Burgio, cappellano del carcere minorile Beccaria e fondatore della comunità Kayros, si misura con ragazzi che arrivano dai campi rom e sinti. «Un fatto tragico che dispiace immensamente, dietro cui c’è un problema serio», dice a proposito della tragedia di Gratosoglio, ma ricorda anche «l’infanzia negata» ai molti preadolescenti — non solo di origine rom — intercettati dai circuiti dell’accoglienza. «Il 70 per cento dei minori rom vive in condizioni di povertà assoluta, con accesso limitato a scuola e servizi sanitari, le comunità rappresentano spesso l’unica speranza per un futuro diverso», dice il sacerdote. E avverte: «Le soluzioni emergenziali non servono, non si può andare avanti a decreti. Invece di abbassare l’età della punibilità, che comunque è inutile se manca la maturità per una pena rieducativa, serve un’alleanza tra servizi e terzo settore per prevenire». Il problema, vero, spiega don Burgio, è che «purtroppo i servizi lavorano in emergenza, perché manca il personale. E proprio per questo occorrono risorse adeguate da investire nella prevenzione».
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15 agosto 2025
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