di
Gloria Campaner
La pianista Gloria Campaner ricorda la «bocciatura» nella sua prima volta a La Fenice: si deconcentrò un attimo e cambiò brano. «Ora grazie a mio marito posso definire la sensazione. E quel giorno conobbi il Maestro Marcello Abbado»
Ammetto con serenità che la mia vita professionale, come quella, credo, di ogni artista, è costellata sia di tanti bei ricordi e splendide gratificazioni, sia di momenti difficili e scivolosi in cui tutto sembra franare all’improvviso, dopo anni di studio alla ricerca spasmodica del suono perfetto. In particolare, un episodio ha segnato in maniera indelebile il mio percorso, tanto da indurmi costantemente a trarne una lezione che sembra rinnovarsi all’infinito.
Il «fattaccio» successe durante la mia partecipazione a uno dei concorsi musicali più importanti per un giovane pianista: il Premio Venezia. Un prestigioso concorso pianistico, organizzato per altro nella mia città del cuore all’interno del Teatro La Fenice, al quale si può accedere solo una volta nella vita e solo nell’anno successivo al diploma di conservatorio ottenuto — conditio sine qua non — con il massimo dei voti. Il concorso si compone di varie prove molto impegnative da sostenere al cospetto di una giuria che valuta se eliminarti o farti passare al round successivo, proprio come in un torneo sportivo o una piccola olimpiade: stesso entusiasmo adrenalinico, stesso stress. Si tratta di una delle prime tappe importanti per la carriera di un giovane pianista in Italia, tasselli fondamentali del suo percorso formativo. A differenza di una prova sportiva, però, una competizione musicale non prevede solo giudizi strettamente tecnici ma anche artistici che contemplano, per esempio, l’interpretazione, il fraseggio, l’espressività, il colore, e naturalmente il gusto soggettivo e personale dei giurati.
Ecco, a 17 anni, con tanti altri concorsi alle spalle, ma sicuramente ancora agli esordi del mio percorso pianistico professionale, finisco in finale al Premio Venezia, sul palco del Teatro La Fenice con un programma composto dalla celebre sonata in re minore n.17 di Beethoven detta «La Tempesta» e dalla grande «Humoreske» in si bemolle maggiore di Robert Schumann. Non so cosa accadde: ricordo solo che la tensione che accompagnò tutte le selezioni, superate brillantemente, iniziò a scemare nel corso dell’ultima prova, quando pensavo di avercela fatta. A un certo punto, alla fine del primo movimento della sonata di Beethoven, la sensazione fu quella di un corto circuito mentale, un attimo di fatale confusione e di scollamento tra pensiero e movimento; un solo istante ma di totale oblio.
Mi «appoggiai» a un’armonia che assomigliava tanto a quella di un’altra famosa sonata di Beethoven: «Gli Addii», la n. 26 in mi bemolle maggiore, e come in un perfetto medley jazz continuai per poche battute a suonare quest’altra opera, non prevista dal programma. Oggi, grazie a mio marito che è molto più bravo di me a dare i nomi alle cose, ci divertiamo a chiamare simili episodi con l’espressione «cadere in un tombino»; ma allora non sapevo proprio dov’ero finita e in un attimo, mentre continuavo inesorabilmente a suonare, fui colta dal panico e da mille interrogativi. Che fare? Riprendere il programma originale? Continuare a suonare «Gli Addii» fino alla fine? Interrompere la prova? Tutte domande che mi feci mentre, suonando, dovevo ricordare di «tenere» il tempo, garantire l’interpretazione, ricordare a memoria lo spartito che stavo eseguendo (qualsiasi esso fosse).
Sapendo tra l’altro, che, da programma, dopo Beethoven e quell’incredibile inciampo, avrei dovuto eseguire l’opera di Schumann… Venni colta da un tremendo imbarazzo che mi istigava a mollare tutto, ma, nel contempo, fui spinta a continuare dalla voglia di riscatto, dal bisogno di dimostrare che avrei potuto farcela. Avevo solo 17 anni ma a quell’età un musicista deve già saper affrontare le sfide più ardue. In pochi secondi, il tempo che avevo a disposizione, decisi di rialzarmi velocemente da quella tonante caduta e con qualche ulteriore piroetta pianistica tornai a suonare la sonata prevista dal programma.
Non superai la prova, ovviamente, e per me fu un colpo terribile, eppure, proprio nel corso di quella competizione, conobbi il Maestro Marcello Abbado, presidente della giuria, che avevo incontrato solo una volta da bambina quando vinsi il concorso pianistico di Stresa. Il suo apprezzamento per la mia interpretazione tornò a sollevare il mio animo e, incredibilmente, quello si trasformò nell’incontro che cambiò la mia vita professionale: Marcello Abbado divenne uno dei miei insegnanti e mentore prezioso fino alla fine dei suoi giorni.
Quella rovinosa «bocciatura», che mi costò tante lacrime, mi ha così insegnato che anche dagli errori talvolta possono nascere situazioni che finiranno per premiarci. Detto questo, da quel giorno ho cercato di correggere quella mia tendenza a mollare la presa in vista del traguardo costringendomi a mantenere una concentrazione assoluta fino all’ultimissima nota e al silenzio che la segue.
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15 agosto 2025 ( modifica il 15 agosto 2025 | 10:34)
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