All’inizio degli anni ’60, il cinema italiano stava vivendo una stagione d’oro, mentre registi come Fellini, Monicelli e De Sica firmavano opere destinate a entrare nella memoria collettiva. Tra i titoli di quell’epoca c’è un film che, seppur meno citato, ha saputo raccontare la Seconda Guerra Mondiale con una forza e un’equilibrata unione di dramma e ironia che ancora oggi colpisce al cuore: Tutti a casa di Luigi Comencini.

Uscito nel 1960, il film vede come protagonista un Alberto Sordi in stato di grazia, nei panni del tenente Alberto Innocenzi. L’8 settembre 1943, giorno dell’armistizio tra l’Italia e gli Alleati, il Paese piomba nel caos: i tedeschi diventano nemici, gli Alleati continuano a sparare, e l’esercito italiano si dissolve. Innocenzi, uomo preciso e fedele al dovere, tenta di mantenere unito il suo reparto e trovare un comando a cui rispondere. Ma la confusione è tale che finisce per unirsi alla fuga di massa, intraprendendo un viaggio verso casa insieme al sergente Fornaciari (Martin Balsam) e all’ingegnere Ceccarelli (Serge Reggiani).

Il loro percorso diventa una sorta di odissea tragicomica attraverso un Paese allo sbando. Lungo il cammino incontrano nuovi compagni e si imbattono in episodi che svelano la complessità di quel momento storico: il rifugio offerto a una donna ebrea, la protezione di un prigioniero americano fuggito da un campo, l’incontro con milizie fasciste che ancora combattono al fianco di Hitler.

Comencini tratteggia tutto questo con un tocco inconfondibile, firmando la sceneggiatura insieme al leggendario duo Age-Scarpelli e a Marcello Fondato. Come accadeva in La grande guerra, il registro oscilla con maestria tra commedia e tragedia: una scena può strappare una risata, quella successiva lasciare un nodo in gola. Memorabile, ad esempio, la gag del campanile: i protagonisti, in fuga, cercano di salire senza fare rumore e approfittano delle preghiere del rosario per mascherare i loro passi.

Se all’inizio Innocenzi è solo un ufficiale ligio agli ordini, il viaggio lo porta a una presa di coscienza politica e morale. Da “funzionario” della guerra diventa un uomo capace di scegliere, fino ad avvicinarsi alla causa partigiana: una parabola che, pur restando nella sfera della finzione, si fa riflesso di un’Italia intera chiamata a fare i conti con la propria storia.

La pellicola non nasconde la responsabilità del fascismo, ma attribuisce ai tedeschi il peso delle atrocità peggiori, ritraendoli come figure brutali e disumanizzate. Allo stesso tempo, mostra un popolo diviso, in cui convivono il coraggio e l’opportunismo, la generosità e la paura.

Girato in bianco e nero da Carlo Carlini e accompagnato dalle musiche di Angelo Francesco Lavagnino, Tutti a casa non è solo una ricostruzione storica, ma un’opera dal potere narrativo universale. È un racconto che parla di guerra senza mai perdere di vista l’umanità, e che affronta il dolore con una leggerezza apparente capace di amplificarne l’impatto emotivo.

Il finale è un piccolo capolavoro di scrittura e regia: dopo una sequenza comica travolgente, la storia vira bruscamente verso un epilogo drammatico che lascia lo spettatore in silenzio: il segno di un cinema che sapeva passare dalla risata al pianto in pochi minuti, senza perdere coerenza.

Oggi, Tutti a casa resta una delle più efficaci rappresentazioni della guerra mai girate in Italia, capace di condensare in meno di due ore il caos, la paura, il coraggio e la resilienza di un popolo. Un film che, più di molte pagine di storia, riesce a far capire cosa significhi davvero vivere un momento in cui il mondo sembra crollare.

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